“Declinare crescendo” scriveva Bruno Manghi nel ’77, parlando del sindacato industriale dei consigli. Malgrado l’intuizione brillante e lo stimolo alla riflessione, oggi, con il facile senno del poi, si potrebbe dire che quella predizione non si è avverata. Il sindacato non è né declinato, né cresciuto. Si tratta ancora di un enorme esercito attivo e ben radicato nei luoghi di lavoro e nel territorio. I numeri (verificati di recente e per difetto) sono più o meno questi: 12 milioni di iscritti (di cui metà nel sindacato pensionati); 3000 assemblee direttive (tra nazionali, regionali e territoriali) per un totale di almeno 50/60.000 attivisti tra funzionari e delegati dei luoghi di lavoro; almeno il triplo i membri delle RSA e delle RSU (eletti a suffragio universale) nei luoghi di lavoro; circa 300 strutture confederali “provinciali” (tra Camere del lavoro e Unioni sindacali territoriali) e almeno un migliaio di uffici nei Comuni più piccoli; circa 3700 i presìdi territoriali dei pensionati in tutte le regioni italiane (con almeno 10.000 volontari). Se si pensa che gli scritti ai principali partiti politici (di governo e di opposizione) oggi non superano il milione e mezzo si coglie la differenza di “peso” tra la rappresentanza sindacale e quella politica che in questi anni è “declinata calando”. Se si scopre che le “stazioni” dei Carabinieri, per parlare di radicamento nel territorio, sono circa 4.500 e che una grande organizzazione come Confindustria non è presente nemmeno in tutte le province italiane si può valutare anche la forte vicinanza del sindacato alla realtà sociale delle città e dei paesi.
La legge sulla gravitazione universale di Newton dice che tutti i corpi attraggono ma lo fanno in misura direttamente proporzionale alla loro massa (al loro peso, diremmo noi) e inversamente proporzionale al quadrato della distanza: basta essere poco distanti dal corpo che si vorrebbe attrarre e la capacità di farlo si riduce drasticamente. La forza di attrazione è una “forza debole”. I numeri sulla dimensione e sul radicamento del sindacato in Italia sembrano soddisfare entrambe le condizioni di Newton per essere in grado di attrarre a 360 gradi. E allora perché non è più così? Perché molti giovani non sanno nemmeno cosa sia il sindacato? Che sia questo il declino di cui parlava Manghi? Un declino più di egemonia che di peso?
Si potrebbe pensare che per rappresentare si debba essere soprattutto attivi: fare ciò che è considerato utile da chi si rappresenta. Ma anche su questo i numeri ci confortano. I sindacati firmano almeno 200/250 contratti nazionali collettivi di lavoro (gli altri 500 depositati al Cnel sono contratti spuri in quanto non firmati dai sindacati “maggiormente rappresentativi”), stipulano accordi sulla gestione delle crisi aziendali e svolgono la contrattazione di secondo livello nei luoghi di lavoro o nel territorio (artigiani, edili, agricoli). Ogni anno vengono sottoscritti (in particolare dal sindacato pensionati) circa 800/1000 accordi (o verbali di incontro) con altrettanti Sindaci soprattutto del Centro Nord. I sindacati regionali si confrontano con i governi regionali sulle macro questioni e in alcuni casi stipulano “patti” programmatici (vedi Emilia Romagna) di valenza pluriennale. I sindacati nazionali periodicamente concordano regole di comportamento e priorità di intervento mediante protocolli generali con le controparti (l’ultimo è il “Patto per la fabbrica” realizzato con Confindustria nel 2018).
Qual’è allora il fattore di riduzione del potere attrattivo del sindacato rispetto ai decenni scorsi? Solo questione di immagine e di tecniche comunicative? O da un ritardo nell’innovazione della “missione” sindacale?
Dalla fine degli anni 70 in avanti il sindacato ha saputo attuare molte trasformazioni indotte dai cambiamenti in atto nel Paese (e non solo). Nel decennio 80 ha gestito, assieme alle imprese, le profonde ristrutturazioni della chimica, della siderurgia, del tessile. Negli anni 90, il sindacato della “concertazione” ha sostituito i partiti usciti di scena dopo “tangentopoli”. Nei primi dieci anni del nuovo secolo ha resistito agli attacchi liberisti alle condizioni di lavoro e ai diritti conquistati anche contrattualmente e ha subito una gestione non “trasparente” delle relazioni sindacali da parte delle “nuove” forze politiche. Nel decennio successivo, quello della crisi, il sindacato ha agito da solo (per la prima volta dal dopoguerra), senza alcun riferimento certo nei partiti di governo o di opposizione. Da ultimo, la pratica della “disintermediazione” ha deliberatamente allontanato il sindacato dal confronto con i governi (più per la debolezza della politica che non per l’arroganza dei nuovi leader di partito). E ora?
Ora tutto sta di nuovo cambiando in maniera tanto radicale quanto imprevedibile: difficile pensare che il sindacato possa restare quello che era. La finanza globale non considera il lavoro come una risorsa, il lavoro diviene più instabile e povero, più autonomo o presunto tale, un effetto residuale delle politiche economiche, non un loro obbiettivo: più difficile da trovare, quasi mai all’altezza delle competenze di chi lo cerca. Soprattutto il lavoro non dà più certezze di piena dignità e cittadinanza a chi lo svolge. E poi è cambiato il sistema della rappresentanza politica. I partiti, quelli sì, dalla fine del secolo scorso sono più piccoli e hanno aumentato la distanza tra sé e i propri rappresentati. Sono diventati dei comitati elettorali più virtuali (a mezzo social media) che reali. Si è scomposto anche il rapporto tra sistemi di governo: lo Stato, le Regioni, le Città, non comunicano che per presunti diritti di veto sulle decisioni altrui. Si sono cancellate le “delegazioni di quartiere” e le province, le periferie, i piccoli paesi e le Aree interne sono bellamente dimenticati. In conclusione, il cittadino è più solo (più povero, più insicuro, più diseguale) di quanto non fosse nei decenni scorsi. La pandemia ha moltiplicato in maniera esponenziale questa “solitudine sociale”, l’ha trasformata in emergenza, ma non l’ha generata.
Come innovare il sindacato di fronte a questi cambiamenti strutturali per evitare il declino o la chiusura? Il sindacato italiano ha sempre saputo tenere una via originale e autonoma rispetto ai due modelli estremi che conosciamo in Europa: il sindacato come braccio operativo della politica e il sindacato corporativo. Ha sempre saputo essere un sindacato generale, che non guarda solo agli iscritti e ai rappresentati. Se non è più possibile rafforzare i diritti di cittadinanza a partire dalla difesa di quelli del lavoro è forse necessario sperimentare un sindacato (anche o più) di cittadinanza di quello che conosciamo: un sindacato di città e di quartiere. Costruendo vertenze (o concertazioni) territoriali dal basso a partire dai bisogni dei cittadini, anche per riportare, assieme ad altre forze sociali, a maggiore efficacia la governance amministrativa territoriale. E sapendo andare oltre la difesa del lavoro che c’è, seppur necessaria, imponendo politiche di creazione di nuovi posti di lavoro per i giovani e le donne prima che sia troppo tardi. Un “lavoro di cittadinanza” in luogo delle sconclusionate teorie di un reddito a prescindere.
Gaetano Sateriale