Pietro De Biasi, responsabile delle relazioni industriali di Fca è molto critico verso le parti sociali. A suo avviso le relazioni industriali devono puntare al miglioramento delle condizioni di lavoro e all’efficienza del sistema produttivo. Ma in Italia si pensa ad altro, creando così dei problemi. Dai quali si potrebbe uscire dando più peso al contratto di impresa e applicando un salario minimo legale.
De Biasi, è crisi delle relazioni industriali?
Direi proprio di sì. Del resto, come si misurano le relazioni industriali? Non sul grado di buoni rapporti o sul numero degli accordi tra le parti sociali. Si dovrebbero misurare sulla base dei risultati rispetto alla mission delle relazioni industriali.
E qual è questa mission?
Dare un contributo al miglioramento delle condizioni di lavoro e dell’efficienza del sistema produttivo.
E sulla base di questo parametro, qual è il risultato?
Se esaminiamo gli ultimi 20 o 15 o 10 anni, troviamo sempre un problema storico di produttività del lavoro, e un problema di salari stagnanti, completamente anelastici rispetto alla congiuntura economica pressa nel suo complesso.
Quindi un giudizio negativo?
Sono elementi solidi che dovrebbero portare a una riflessione precisa. Sempre che non si preferisca invece basare il giudizio sul fatto che le parti sociali si vogliono bene e fanno degli accordi. Cose importanti, ma le relazioni industriali dovrebbero servire ad altro.
Di chi la responsabilità di questo stato di cose?
Prima di parlare di responsabilità è bene avere chiaro che le relazioni industriali danno un contributo a far crescere la produttività del lavoro e a regolare l’andamento dei salari, ma sono altri fattori, tra cui una corretta allocazione dei capitali e gli investimenti, a influenzare l’economia del paese.
Qualcuno comunque ha commesso degli errori.
Alcuni paesi a noi vicinissimi si sono posti il problema di cosa c’era da cambiare nel diritto del lavoro, individuale e collettivo. Francia e Spagna hanno realizzato le riforme del diritto del lavoro non limitandosi a interessarsi del diritto individuale, ma affrontando anche il diritto collettivo.
L’Italia ha attuato una profonda riforma del diritto del lavoro.
Sì, ma gli interventi del Job Act, pure rilevanti, hanno interessato solo il diritto individuale. E questo segna una differenza significativa rispetto a quello che hanno fatto quegli altri paesi.
I governi italiani lo hanno fatto per non intervenire su materia di esclusiva competenza delle parti sociali o per insipienza?
Entrambe le cose direi. Lo hanno fatto per l’opposizione sorda delle parti sociali a qualsiasi intervento di questo tipo e perché non hanno avuto la stessa forza degli altri paesi che hanno affrontato questi temi. Il risultato è che Francia e Spagna hanno preso un indirizzo molto preciso per l’aziendalizzazione del contratto collettivo, facendo del livello aziendale di contrattazione il vero punto di riferimento.
Una scelta giusta a suo avviso?
Sì, perché in sistemi economici altamente competitivi le relazioni industriali, per essere uno strumento utile per allocare meglio le risorse e per ottimizzare il sistema retributivo devono essere focalizzate sul livello aziendale e solo sussidiariamente su quello nazionale. Come si fa in tutto il mondo, tranne che in Germania, che ha però un sistema molto diverso dal nostro e per questo non fa testo.
I governi italiani non hanno favorito questo cambiamento?
No, non se ne sono interessati, lasciando questo compito alle parti sociali che hanno però agito in senso diametralmente opposto, rafforzando il peso del contratto nazionale. Anche l’accordo interconfederale del marzo scorso lo ha fatto. E ha fatto anche di più, perché le parti sociali hanno chiesto l’intervento di una legge che attribuisse al contratto nazionale valore erga omnes. La pretesa di avere un contratto di settore corporativo riflette probabilmente gli interessi prevalenti di aziende monopoliste o che comunque non si confrontano con i mercati, dando così un’impostazione francamente vetusta all’attuale modello italiano di relazioni industriali.
Il suo giudizio sulle parti sociali è quindi molto negativo?
Verso chi dice che le relazioni industriali le fanno le parti sociali e la legge deve intervenire il meno possibile, il giudizio è quello.
Lei ha avvertito il cedimento, da più parti denunciato, delle gerarchie all’interno delle organizzazioni sindacali?
Se non ci si confronta con il cambiamento il rischio è quello di avere una gerarchia formale strutturata in un certo modo, mentre però la realtà va da un’altra parte. Il rischio è che questo scollamento diventi plateale.
Se questa è la situazione, che terapie suggerisce?
Un intervento del legislatore è necessario. Che a mio avviso non dovrebbe essere diretto a misurare rappresentanza e rappresentatività delle parti sociali, argomento molto importante, ma assai delicato, soprattutto perché è necessario evitare di costruire un sistema corporativo, come quello prefigurato dalla seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione.
E quale intervento allora?
Il più semplice e il più importante dovrebbe essere quello per istituire un salario minimo per tutti, valido anche per i lavoratori autonomi. Sarebbe una misura importante di contrasto al lavoro nero. Del resto, è una misura che hanno tutti i paesi industrializzati.
I sindacalisti non guardano con favore a questo intervento.
Sbagliando, perché il salario minimo legale, garantendo una retribuzione minima per tutti, libererebbe la contrattazione consentendo una diversificazione dei modelli contrattuali, senza abolire il contratto nazionale, ma evitando che il contratto aziendale sia subordinato al nazionale come pretendono gli accordi interconfederali sottoscritti in Italia in questi anni. Non bisognerebbe dimenticare che in Germania l’introduzione del salario minimo legale è stata una bandiera dell’Spd ed è stato voluto dal sindacato che lo ha considerato un valido strumento per la sua azione.