È la più grossa cinghia di trasmissione dell’economia mondiale: una somma di importazioni ed esportazioni per un totale di 1.500 miliardi di euro. Non ci sono altre due aree al mondo con un interscambio di pari entità. In un momento in cui la stessa economia mondiale stenta, uno non penserebbe di mettere una zeppa dentro un meccanismo così importante, complesso e variegato. Ma è quello che ha dichiarato di voler fare Donald Trump, minacciando una raffica di dazi e tariffe che dovrebbero raddrizzare quella che definisce “l’enorme e terribile” disparità commerciale fra Europa e Stati Uniti.
Come quasi sempre con Trump, i dati su cui si appoggiano lamentele e minacce sono inventati o, forse, semplicemente, non li ha capiti bene. Il punto importante, comunque è che sono balle. La vera entità del disavanzo americano è di qualche decina di miliardi, briciole su un interscambio di 1.500 miliardi di euro. Vediamo.
L’America di Trump (secondo i dati più recenti) importa merci europee per 500 miliardi di euro e esporta merci in Europa per 350 miliardi di euro. Il disavanzo commerciale, dunque, è di 150 miliardi di euro e non 350 come vaneggia Trump. Ma nei conti fra paesi, oltre alle merci ci sono i servizi (finanza, assicurazioni, brevetti e licenze, software). Qui, l’America importa per 290 miliardi di euro, ma esporta (pensate a Microsoft e Google) in Europa per quasi 400 miliardi: per gli Usa il saldo è positivo per oltre 100 miliardi. Fatti i conti, il disavanzo complessivo (merci più servizi) americano verso l’altra sponda dell’Atlantico, dunque, arriva appena a 50 miliardi di dollari. Su 1.500 miliardi di euro di scambi, si può parlare, di fatto, di equilibrio. E, infatti, il peso relativo sulle rispettive economie è più che lieve: il deficit fra le due aree vale lo 0,3 per cento del Pil europeo e lo 0,2 per cento di quello americano. Di “enorme e terribile”, qui c’è solo la falsità della propaganda della Casa Bianca.
Ma per Trump e per il suo elettore medio, queste cifre complessive, probabilmente, significano poco. Il disavanzo che fa mediaticamente effetto è quello che vedono ogni giorno: le Mercedes, le Ferrari, borse e profumi, mozzarelle e prosciutto, anche se il grosso delle importazioni dall’Europa è fatto, piuttosto, di gru, macchinari industriali, farmaci. Il problema è che queste importazioni, per così dire, vistose rischiano di sfuggire alla mannaia delle tariffe. L’americano abbastanza ricco da permettersi la Mercedes, la borsa di Hermès, lo Chanel, il prosciutto San Daniele, sbufferà, ma difficilmente si farà spaventare da un aumento del 10 per cento, ammesso, tra l’altro, che gli importatori scarichino tutta la tariffa sul consumatore finale.
Trump potrebbe accontentarsi dell’eco dei dazi su questi prodotti popolari (almeno nell’immaginario dei consumatori), anche se, poi, un anno dopo, i dati della bilancia dei pagamenti dovessero smentire i proclami di vittoria. Oppure potrebbe procedere con una raffica di dazi a 360 gradi su tutte le importazioni dall’Europa. Il blocco avrebbe effetti negativi sull’economia americana, ma, sicuramente, per l’Europa sarebbe un passaggio difficile. Gli analisti di Deutsche Bank hanno calcolato che un dazio del 10 per cento su tutte le esportazioni europee comporterebbe un calo dello 0,5-0.9 per cento del Pil europeo. Ai ritmi ai quali si sta sviluppando l’economia, basterebbe per portare la Ue sull’orlo della recessione.
Tuttavia, il dato complessivo dice solo una parte della verità e non la più importante. L’esposizione commerciale dei singoli paesi verso gli Stati Uniti è diversissima. Per l’Irlanda, ad esempio, l’export verso gli Usa vale il 10 per cento del Pil (anche se qui sarebbe più corretto parlare delle multinazionali americane in terra irlandese). Per quanto riguarda i grandi paesi, le esportazioni oltre Atlantico valgono il 3,8 per cento del Pil per Olanda e Germania, il 3,2 per cento per l’Italia. Anche se i dazi, ovviamente, riducessero solo in parte il volume dell’export, il contraccolpo per questi paesi sarebbe sensibile e superabile solo a fatica orientando altrove le proprie esportazioni.
In realtà, la partita è tutta da giocare e una ferma risposta europea può fermare o disarmare l’offensiva dei dazi. Ecco perché, a ben guardare, la posta in gioco, più che economica, è politica. In termini economici, i dazi possono essere combattuti e sono, comunque, temporanei. Ma, politicamente, è in gioco l’Europa. Si può rispondere a Trump, con determinazione, tutti insieme. Oppure, ogni paese può inseguire i propri interessi particolari, cercando un accordo a due, come preferirebbe la Casa Bianca: farla franca, sacrificando l’Europa e il suo ruolo nel mondo e accettando uno strapuntino marginale a livello globale. Per i sovranisti – da Giorgia Meloni in giù – che simpatizzano con Trump e controllano buona parte dei governi europei, come per i loro elettorati, è un passaggio decisivo per chiarire la propria natura.
Maurizio Ricci