Le tante guerre politiche interne nostrane ci fanno perdere d’occhio quelle commerciali in corso. Vero è che l’aumento dei dazi trumpiani sui prodotti importati dalla Cina e dall’Unione europea sicuramente gioverebbero all’industria e all’occupazione americana, incidendo positivamente anche sulla bilancia dei pagamenti degli Usa con un commercio americano da decenni fortemente squilibrato che probabilmente ne trarrebbe utilità dopo che molte imprese americane hanno preferito mercati poco regolamentati e a bassissimo costo del lavoro. Vero è anche che le multinazionali e le banche Usa hanno sfruttato questo sistema facendo profitti straordinari ed evitando di pagare le tasse dovute.
Non è quindi sorprendente sapere che il deficit della bilancia commerciale Usa, da decenni è, ogni anno, di centinaia di miliardi di dollari. Così per il bilancio statale. Nel 2017, ad esempio, il deficit commerciale è stato di 568 miliardi di dollari (811 miliardi, se si considerano solo le merci senza i servizi) e, a sua volta, il deficit del bilancio federale ha raggiunto i 665 miliardi. La guerra commerciale non produrrà soltanto ritorsioni da parte dei paesi colpiti dai dazi. C’è già un’escalation di per sé foriera di gravissime instabilità che mette in moto effetti destabilizzanti anche sui mercati delle monete e su quelli finanziari. Le conseguenze si vedono già: la Banca nazionale cinese ha deciso di emettere 700 miliardi di yuan sul mercato, pari a oltre 100 miliardi di dollari, con l’evidente intento di svalutare la propria moneta. È una contromisura per contenere i danni provocati dalle misure protezionistiche Usa, perché con il deprezzamento dello yuan gli esportatori cinesi livellerebbero l’aumento dei dazi americani d’importazione, mantenendo in un certo senso i loro guadagni ai livelli precedenti alle decisioni Usa.
A livello interno, in Cina il deprezzamento della moneta non avrebbe grandi effetti negativi, soltanto le sue importazioni diventerebbero più costose. Ma la Cina, da quasi 10 anni, ha cambiato la rotta della sua economia, sviluppando di più il mercato interno e i dazi, pertanto, possono diventare un ulteriore stimolo a sviluppare i settori industriali colpiti e comunque la Cina, da qualche tempo, promuove accordi commerciali in yuan, soprattutto con molti paesi emergenti, bypassando così la mediazione del dollaro. L’Unione Europea, per il suo sistema politico, economico e monetario e per le storiche alleanze internazionali, purtroppo, non può adottare decisioni simili. Anche se Washington impone una tassa del 20% su 1,3 milioni di veicoli importati dall’Europa, di cui più della metà dalla Germania.
Sul fronte finanziario, una delle conseguenze determinata dall’instabilità, a seguito dell’aumento del debito globale e delle minacce di guerre commerciali, è stata la crescita della bolla dei credit default swap (cds). I derivati usati per le cosiddette coperture del rischio d’insolvenza. Essi misurano anche le fibrillazioni emerse a Wall Street dove Standard & Poor’s 500 (l’indice delle maggiori imprese americane), dal picco di gennaio a oggi, ha perso il 5%.Secondo varie analisi, anche dell’ultimo rapporto trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali, il volume dei cds è di circa diecimila miliardi di dollari. Certo ancora lontano dai livelli del 2007, ma già preoccupante in previsione delle insolvenze del debito delle imprese e di altre categorie private: oggi quattro banche americane (Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Goldman Sachs) gestiscono il 90% del commercio mondiale dei cds. Ancora una volta le autorità di controllo purtroppo stanno a guardare mentre la bolla cresce.
Il commercio e i mercati non hanno bisogno di dazi ma di regole che valgano per tutti. Gli effetti sull’economia europea del protezionismo trumpiano sono stati già calcolati da alcune associazioni di categoria : i produttori di acciaio del Vecchio Continente, hanno ricordato che l’export di questo materiale dall’Europa verso gli Stati Uniti è pari nel complesso a 5 milioni di tonnellate, cioè un settimo dei 35 milioni di tonnellate importate dagli americani da tutti i paesi del mondo. Il valore economico delle esportazioni europee è dunque attorno ai 4-5 miliardi di dollari mentre l’incidenza di un dazio del 25% è teoricamente nell’ordine di appena 1 miliardo. E anche un centinaio di milioni di euro, dovrebbe essere il peso dei balzelli sull’alluminio, poiché il valore delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti di quest’altro materiale è invece più contenuto, pari a 1,2 miliardi di euro all’anno.
Vi sono pareri contrastanti in merito, poiché per esempio l’associazione di categoria delle imprese siderurgiche italiane ha dato numeri che fanno riflettere: l’acciaio prodotto nel nostro Paese oggi costa ben 200 dollari a tonnellata in meno rispetto a quello americano. Anche in presenza di dazi salati, rimarrebbe competitivo, almeno in uno scenario in cui i prezzi medi di mercato della materia prima restano sui livelli attuali. Dunque, prima di imbracciare le armi e imporre dazi sui jeans Levi’s, sul burro d’arachidi o sulle Harley Davidson, è bene pesare attentamente sul piatto della bilancia tutti i pro e contro e l’attendismo della Ue sul da farsi muovendo contro Trump è ancora evidente.
Vero è che è comunque molto probabile la perdita di posti di lavoro causata da nuovi squilibri sul mercato: le barriere doganali di Trump rischiano infatti di generare un rimescolamento di carte sullo scacchiere dei commerci internazionali; e i materiali ferrosi di altri paesi, trovando un argine nelle politiche doganali statunitensi, potrebbero riversarsi in Europa, generando un’offerta sovrabbondante sul mercato e danneggiando fortemente la produzione interna.