Valgono oltre 12 miliardi di dollari le esportazioni italiane già colpite dai dazi Usa, quelli del 12 marzo, o che stanno per essere colpite da quelli che entreranno in vigore il 3 maggio, in attesa delle tariffe rimandate dall’amministrazione Trump al 9 di giugno. Una somma che la Fiom, che ha realizzato e presentato un’indagine sul tema partendo dai dati Comtrade, il database delle Nazioni Unite sul commercio internazionale, invita tuttavia a fare con prudenza perché, ad esempio, uno stesso prodotto potrebbe essere interessato più volte dai dazi.
Nello specifico si tratta di 3,417 e 2,258 miliardi di dollari il peso delle esportazioni di alluminio e acciaio, nelle quali inserire non solo i prodotti primari ma anche tutti i prodotti composti da questi materiali, 3,653 miliardi di dollari che riguardano i veicoli e 2,752 miliardi di dollari il valore della componentistica sempre peri i veicoli.
Il valore complessivo dell’export dei prodotti metalmeccanici si attesta a oltre 282 miliardi di dollari e l’import a quasi 229 miliardi, per un saldo all’incirca di 54 miliardi e mezzo di dollari. Oltra al dato complessivo l’indagine analizza, sia in termini assoluti che in percentuale, oltre che per categoria merceologica e aree di riferimento, la composizione di esportazioni e importazioni.
L’Unione europea e il Regno Unito restano i principali mercati di riferimento per la metalmeccanica italiana, con le esportazioni che valgono 161 miliardi di dollari e le importazioni 153. Colpisce il differente rapporto che la nostra industria ha con Usa e Cina. Mentre con il Stati Uniti il nostro saldo commerciale è in positivo di oltre 23miliardi, perché esportiamo beni per un valore superiore ai 29 miliardi di dollari e nei importiamo per una cifra che va di poco oltre i 6, con la Cina la bilancia commerciale è in negativo. Infatti le esportazioni sono leggermente al di sotto dei 7 miliardi di dollari e le importazioni si attestano a 27 miliardi.
In percentuale Unione europea e Regno Unito cubano il 57% delle nostre esportazioni, la Cina appena il 2,4%, il resto del mondo quasi il 30% e gli Usa il 10,5%. Una quota non significativa ma non bisogna dimenticare l’effetto indiretto legato alla Germania, paese di riferimento per il nostro export che, a sua volta, esporta negli Usa. Sul versante importazioni, la parte del leone la giocano sempre Ue e Uk, con una quota che si avvicina al 67%. Dal resto del mondo importiamo prodotti per il 18,4%, dagli Stati Uniti solo il 2,8% e dalla Cina l’11,8%, con un trend in crescita.
Analizzando le esportazioni sulla base delle merci, verso gli Usa quasi la metà è costituita da macchinari e impianti, al cui interno troviamo un universo variopinto che comprende macchine per la lavorazione di metalli, per il packaging, valvole, rubinetteria, alberi di trasmissione etc, il 17,6% da veicoli, soprattutto di alta cilindrata, pochi in termini numerici ma significativi dal punto di vista del valore, poi navi, con il 5.7%, da crociera e non solo, e aerospazio con un quota che si attesta a 3,9%. Dal lato delle importazioni cresce la nostra dipendenza dalla Cina, soprattutto per macchinari e impianti e apparecchiature elettroniche, centrali per la transizione energetica e tecnologica.
Gli effetti dei dazi statunitensi aggravano una situazione già di crisi per l’industria metalmeccanica del nostro paese come le molte vertenze aperte al Mimit testimoniano. Dal 2022 al 2024 la media delle ore mensili di cassa integrazione è cresciuta del 36%. Negli ultimi cinque anni il numero di posti di lavoro persi, tenendo conto solo degli occupati diretti, è di 13.571 unità, mentre sono 19.364 i lavoratori dichiarati in esubero o che usufruiscono degli ammortizzatori sociali, ossia la metà degli addetti in forza a tali aziende. A questi bisogna aggiungere i quasi 8mila metalmeccanici in appalto coinvolti nella riconversione delle centrali Enel a carbone o negli impianti petrolchimici di Eni-Versalis.
Come arginare dunque i dazi di Trump e rimettere in motto l’industria italiana? Secondo Michele De Palma, segretario generale della Fiom, “ci deve essere la consapevolezza, in Europa e in Italia, che bisogna diversificare import e export. Non dobbiamo essere in una situazione di mono committenza di mercato o di materie prime, ma vanno allargate le relazioni commerciali. Questo deve portare a un equilibrio tra import e export. Senza di questo- spiega – c’è una vulnerabilità europea e italiana. Occorre dunque superare un modello economico basato sulle esportazioni. Per farlo bisogna rilanciare la domanda interna, aumentando i salari attraverso i rinnovi contrattuali e con politiche fiscali che detassino gli aumenti dei rinnovi e rafforzino il potere di acquisto”.
Le altre proposte avanzate dai meccanici della Cgil mirano a impedire le delocalizzazioni, favorire il reshoring, contrastare il dumping sociale e ambientale fuori dall’Europa e spingere per un’armonizzazione contrattuale e salariale in tutto il continente. Critiche non sono mancate anche al Clean Industrial Deal e all’Automotive Action Plan, che la Fiom ritiene insufficienti per risorse, tempistiche e obiettivi.
Per le vertenze ancora attive al Mimit De Palma sottolinea come “i tavoli di crisi non sono frutto delle transizioni ma sono decennali. Quello che occorre è una contrattazione che metta allo stesso tavolo sindacati, aziende e governo. Va abbandonata – afferma -la logica degli interventi a pioggia, per dirottarli su settori strategici perché abbiamo un problema di nanismo industriale e questo limita o impedisce gli investimenti”.
Per far fronte a questa situazione il numero uno della Fiom invoca “l’attuazione di un nuovo strumento. Un piano pluriennale di garanzia nazionale che salvaguardi l’occupazione, che punti su una riduzione dell’orario di lavoro, che investa in formazione, che favorisca il ricambio generazionale. Dobbiamo programmare e non solo gestire le emergenze. Se un’azienda riceve risorse pubbliche dobbiamo verificare che il piano industriale stabilito venga realmente attuato”.
“Il combinato disposto di dazi, crisi al Mimit e transizione può avere – conclude De Palma – un impatto non ancora stimabile ma devastante. In questa situazione servono relazioni industriali stabili. Ma il fatto che non si sia ancora ripreso il tavolo con Federmeccanica e Assistal non è una buona cosa. Le iniziative si stanno moltiplicando. Molte aziende ci stanno chiedendo di riaprire la trattativa, e sta crescendo anche il sostegno della politica. Ringrazio le forze di opposizione che hanno manifestato la loro attenzione nei confronti del contratto. In molti comuni i consigli stanno firmando documenti condivisi da tutti i partiti per chiedere una riapertura delle trattative. Bene se il governo volesse spingere per far riprendere il tavolo ma non vogliamo farci sostituire nel confronto negoziale. Insieme a Fim e Uilm valuteremo quali iniziative mettere in campo per riavviare il dialogo sul rinnovo”.
Tommaso Nutarelli