Venerdì 4 settembre, il Consiglio dei ministri ha varato gli ultimi quattro decreti di cui si compone il cosiddetto Jobs Act. A poche ore di distanza dal termine della riunione, Cesare Damiano, deputato Pd e presidente della commissione Lavoro della Camera, ha reso noto un suo giudizio negativo relativo, in particolare, alla questione dei controlli a distanza. O, per dire meglio, alla questione dell’utilizzabilità da parte delle imprese, a fini disciplinari, dei dati ricavabili da tali controlli.
Damiano, perché questo giudizio negativo?
A differenza di quanto faccio di solito, pongo innanzitutto un problema di metodo. C’è stato un lungo confronto che ha coinvolto il ministero del Lavoro, i parlamentari Pd delle commissioni Lavoro della Camera e del Senato e anche la Segreteria nazionale dello stesso Pd. Confronto che è approdato a un accordo sui testi dei decreti relativi al Jobs Act. Dopo di che, il Consiglio dei ministri si riunisce e cancella l’accordo.
E quindi?
Rispetto alla conduzione del Pd, Renzi invoca spesso il principio di maggioranza. E’ un principio che condivido e al quale mi inchino. Se, all’interno di un partito politico, si cerca un’intesa su un punto controverso e non si approda a nessun risultato, si può allora giustamente invocare tale principio, perché in politica non è consentito restare prigionieri di una paralisi decisionale. Ma se invece si è arrivati a un accordo condiviso, la logica vorrebbe che l’intesa venisse rispettata, e non sottoposta a un giudizio di ultima istanza da parte del segretario del partito, che, nel nostro caso, è anche il capo del governo. Sarebbe stato più semplice se Matteo Renzi avesse detto in premessa: ‘Decido io e basta. Non c’è nessun bisogno di accordi con chi abbia in partenza opinioni diverse.’ Una logica, questa, che, peraltro, implicherebbe l’espulsione dei corpi estranei. Comunque, il fatto che il lavoro parlamentare, volto alla ricerca di un’intesa, possa essere cancellato con un atto d’imperio è non solo scoraggiante e persino umiliante per chi crede in tale impegno, ma, da un punto di vista democratico, è anche inaccettabile.
Ma questa non è una conclusione sin troppo netta, visto che si riferisce a un singolo caso?
No, perché purtroppo c’è già stato il precedente del caso relativo ai contratti a termine. Anche lì, appena pochi mesi fa, prima era stato raggiunto un accordo con il ministero del Lavoro, e poi l’intesa è stata cancellata dal Presidente del Consiglio. Da qui, sorge, inevitabilmente, una domanda: è ancora utile che le Commissioni parlamentari forniscano al Governo dei pareri o ricerchino delle intese con l’Esecutivo?”
Questa questione di metodo, così posta, ha un indubbio interesse politico. Ma, rispetto alla concretezza dei rapporti che si sviluppano nelle aziende fra proprietà e lavoratori, le chiedo: cosa pensa, nel merito, dei contenuti della nuova normativa per quanto si riferisce ai controlli a distanza?
“Non mi convince. E cerco di spiegare perché. Il testo elaborato dal governo riprendeva in un primo passaggio quello originario della legge 300 del 1970, il famoso Statuto dei diritti dei lavoratori, per ciò che riguardava gli strumenti di controllo a distanza. Rispetto alle tecnologie disponibili 45 anni fa, ci si riferiva in sostanza a telecamere posizionate in modo tale da inquadrare determinati obiettivi. Postazioni fisse dunque, che potevano essere utilizzate “esclusivamente” ai fini di salvaguardare la sicurezza di determinati impianti o il patrimonio aziendale. Per fare un esempio, una telecamera puntata su un altoforno o su un bene di particolare valore. Il tutto allo scopo di prevenire incidenti o qualsiasi altro tipo di rischio.”
Questo, nel 1970. E oggi?
Il testo governativo confermava ciò che era stato sancito nel 1970, ovvero che l’installazione di tali strumentazioni di controllo doveva avvenire previo accordo sindacale o, in carenza di tale accordo, previa autorizzazione da parte della direzione provinciale del Lavoro. Tuttavia, mentre si ribadiva che i dati ricavati da questi controlli a distanza possono essere utilizzati esclusivamente ai fini indicati, in un comma successivo si diceva, all’opposto, che tali dati saranno utilizzabili a tutti i fini relativi alla regolazione del rapporto di lavoro. Il che significa ammettere anche un loro utilizzo a fini disciplinari. Ebbene, tra questi due passi della stessa norma c’era una evidente contraddizione. Ed è appunto questo il problema che abbiamo sollevato. Il compromesso raggiunto col ministero del Lavoro consisteva nella soppressione delle righe relative alla possibilità di utilizzare i controlli a distanza anche a fini disciplinari.
Però oggi, con l’ampia disponibilità di tecnologie elettroniche, informatiche, digitali, ognuno di noi porta con sé, o comunque utilizza, strumenti di informazione e comunicazione che lasciano continuamente tracce facilmente rilevabili. Perché questo non dovrebbe valere nei rapporti fra imprese e lavoratori?
Infatti, per ciò che riguarda strumenti quali smartphone, tablet e computer portatili, che evidentemente non esistevano nel 1970, nel testo governativo si specificava che, qualora tali apparecchiature siano fornite dal datore di lavoro al lavoratore affinché quest’ultimo possa svolgere la mansione assegnatagli, non c’è bisogno di nessun accordo preventivo col sindacato, così come, del resto, avviene per i badge da usare in entrata e in uscita dal luogo di lavoro. In tutti questi casi, obbedendo alle regole ricomprese nella normativa sulla privacy, occorre che, all’atto della consegna, l’impresa informi il lavoratore sui potenziali elementi di controllo insiti negli strumenti di cui viene fornito, e quindi anche circa l’utilizzo che di tali elementi può essere fatto a fini disciplinari.
Chiarita la differenza fra nuovi e vecchi strumenti di controllo a distanza, le chiedo: come è finita la partita?
Direi che avevamo raggiunto un sapiente equilibrio grazie all’apporto e tenendo conto dei contributi del ministero del Lavoro, del Garante della privacy e delle commissioni Lavoro della Camera e del Senato. Purtroppo, stando a quanto annunciato dal governo in esito alla riunione del Consiglio dei ministri del 4 settembre, tale equilibrio è stato stravolto. A quanto si capisce, il decreto dovrebbe contenere una norma che in una riga afferma una cosa e, poche righe dopo, il suo contrario. Il che rischia di creare un aumento del contenzioso legale, a tutto danno di quella certezza che, per le imprese, è notoriamente un bene prezioso.
Questo rispetto ai controlli a distanza. E rispetto agli altri punti degli ultimi quattro decreti?
La ricerca di un equilibrio, per quanto lunga e faticosa, fra interessi che possono essere anche opposti o, quanto meno, divergenti, è il principio cui si è ispirata tutta l’attività delle commissioni Lavoro di Camera e Senato rispetto all’insieme del Jobs Act e, in particolare, rispetto alle materie normate dai quattro decreti varati il 4 settembre. Mi riferisco a questioni quali quelle del prolungamento della Cassa integrazione in caso di cessazione non definitiva dell’attività produttiva, dei Centri per l’impiego, del destino di Italia Lavoro, nonché a quella, particolarmente delicata, dei lavoratori disabili. Quando potremo leggere i testi definitivi dei decreti, vedremo cosa sarà rimasto delle nostre osservazioni.
@Fernando_Liuzzi