Siamo sull’orlo dell’abisso. È il novembre del 2008 quando Richard Wagoner, numero uno di General Motors, pronuncia queste parole nel momento in cui la crisi finanziaria negli USA travolge l’economia reale. E, con essa, non può essere risparmiato il settore dell’auto, comparto simbolo dell’industria americana e non solo. Il resto è storia, anche un po’ italiana, visto che proprio in quel frangente maturano le condizioni per la nascita di Fiat-Chrysler.
Dal 2008 a oggi è cambiato il mondo, non solo per la crisi economica ma anche per il covid-19 che, in questo senso, è potente acceleratore. È dentro questo cambiamento che si affermano l’intelligenza artificiale, i big data, le grandi piattaforme, l’industria 4.0… È quella che in altri termini viene definita “dematerializzazione dell’economia” che, da una parte, sta a indicare il minor consumo di materie prime (anche grazie al riciclo): oggi, per esempio, in uno smartphone vi sono il telefono, la calcolatrice, la macchina fotografica, la videocamera, la radiosveglia, il registratore, il navigatore satellitare, la bussola, il barometro, etc.; dall’altra, vi è la correlata erosione di posti di lavoro nell’industria fordista, in virtù di meno oggetti prodotti – tutto ciò che vi è nello smartphone è naturalmente prodotto in minor misura – e, anche, in ragione di ciò che fanno le macchine al posto delle persone.
Se inoltre consideriamo proprio l’evoluzione a cui sta andando incontro l’industria dell’automotive, si calcola che il motore elettrico sia la metà del motore a combustione e che – per approssimazione – sia realizzato con la metà dei componenti; al di là del fatto che motore elettrico significa, anche, processo di decarbonizzazione con relativi impatti sull’industria dell’oil and gas. Per non parlare poi della mobilità che cambia anche in funzione di car sharing e car pooling e, quindi, del minor numero di automobili in possesso in particolare di persone e famiglie.
Ora, premesso che lo stesso motore a combustione è oggi il 40% più piccolo del medesimo motore prodotto negli anni ‘80, è evidente come l’industria tradizionale, quella fordista, si stia sempre più assottigliando; e che i nuovi saperi, le nuove tecnologie e, più in generale, l’innovazione stanno profondamente cambiando il lavoro, proteso a convergere – in modo irreversibile – con la sua forma di lavoro a distanza.
In questa “nuova geografia del lavoro” – così la chiama con un’espressione felice il giovane economista italo-americano Enrico Moretti – la stessa forma tradizionale di rappresentanza è destinata alla stessa sorte: quale futuro per il sindacato e per le Unions che proprio sull’industria del carbone e dell’auto – e quindi sul minatore e sulla tuta blu – hanno costruito la loro fortuna e la loro ascesa sociale? Cosa e chi rappresenteranno domani le organizzazioni sindacali?
Sono più di 20 anni, inoltre, cha assistiamo all’incedere dei cosiddetti “nuovi lavori” che, a oggi, non hanno trovato alcuna forma di rappresentanza sociale. La stessa affermazione del salario minimo legale su larga scala ci dice che qualcosa sta cambiando nei processi di rappresentanza. Se poi consideriamo che, nel nostro Paese, il 50% degli iscritti al sindacato sono pensionati e che solo il 10% sono giovani, abbiamo chiara la distanza che c’è tra le organizzazioni sindacali tradizionali – che restano il sopravvissuto della Prima Repubblica, con virtù e limiti di questa matrice – e il lavoro del futuro.
In questo senso, è plausibile che gli attuali soggetti di rappresentanza non siano più in grado di essere rappresentativi ma è impensabile che muoiano le relazioni di lavoro: ovvero, che le persone la smettano di cercare di tutelare il proprio interesse in modo collettivo. È nella natura delle cose: per quanto stressata, oggi, la dimensione relazionale e aggregativa della persona – e di lavoratori e lavoratrici – non può esaurirsi.
Da questo punto di vista, è molto interessante il caso dell’AWU (Alphabet Workers Union), il sindacato nato all’interno del colosso tecnologico Google (Alphabet è il nome del conglomerato che comprende Google e YouTube tra gli altri). AWU raggruppa oltre 400 dipendenti, tra ingegneri e impiegati, ed è uno dei primi sindacati in assoluto all’interno dell’industria tecnologica americana, il primo in una delle aziende più importanti della Silicon Valley.
Chi ha seguito il caso racconta che, in particolare, AWU non nasce per rivendicazioni di carattere economico ma di tutela dei diritti, rispetto della libertà di opinione e utilizzo delle nuove tecnologie. Il mese scorso, ad esempio, Google ha licenziato due dipendenti che avevano avanzato critiche sulla gestione dei casi di molestie sessuali in azienda e riserve di natura etica sullo sviluppo di programmi di intelligenza artificiale per il dipartimento della difesa Usa.
A ogni modo, si tratta di un precedente importante destinato a generare novità nel mondo avanzato; ed è interessante che arrivi dagli USA che, nell’area Ocse, sono il Paese che registra il livello più basso (13%) di copertura dei contratti collettivi (Italia 85%, Francia 92%, Germania 61%, Spagna 73%, UK 32%, etc.).
Google, insieme alle altre BigTech, è il colosso che simboleggia il lavoro che viene. AWU è l’embrione di organizzazione indispensabile per creare nuovi equilibri col capitalismo tecnologico che avanza. All’interno di perimetri di democrazia, l’economia e il lavoro, per quanto dematerializzati, non possono smarrire i loro connotati di dignità della persona e di libera e spontanea aggregazione. A meno che non si esca dai perimetri suddetti. Ma questa è un’altra storia.
Giuseppe Sabella – Twitter: @sabella_thinkin