Il liberismo dominante (nel mondo) ha imposto politiche di arretramento dei diritti e dei trattamenti del lavoro. Questa ideologia è penetrata nella sinistra europea e anche nella sinistra italiana. Le riforme sbandierate contengono peggioramenti netti della dignità di una gran parte del mondo del lavoro: soprattutto di chi sta cercando di entrarvi per la prima volta e ne viene respinto. Queste terapie non hanno prodotto un nuovo sviluppo, poiché la malattia originaria non stava nella eccessiva rigidità del lavoro quanto nella scarsa innovazione delle economie europee di fronte alla globalizzazione. O meglio: nel fatto che il contributo alla globalizzazione da parte del mondo occidentale è stato più finanziario che industriale. Dopo un decennio di crisi, recessione e deflazione nessuno pensa più che la svalorizzazione del lavoro sia una medicina utile. Al contrario, l’avvio della quarta rivoluzione industriale ricolloca il lavoro e le sue competenze al centro del sistema di produzione e lo sottrae alla marginalizzazione. La digitalizzazione ha bisogno di più saperi e più partecipazione responsabile del lavoro per funzionare e diffondersi socialmente. Almeno fino a quando i robot non saranno capaci di generare robot più intelligenti di loro stessi.
Le politiche europee e nazionali non hanno saputo giocare su nessuno di questi scenari e hanno subito l’insofferenza sia delle parti più deboli del mercato del lavoro che si sentono escluse per sempre, sia delle professionalità più ricche che non intendono essere trattate come un prodotto “usa e getta”. Con l’aggravante nazionale che il principale partito di sinistra ha smesso negli ultimi anni di esercitare anche il più blando pensiero laburista sulle evoluzioni dell’economia e della società. Interessato esclusivamente ala guerra di successione nel Pd e nel Governo (nei governi) del Paese.
Veniamo alle questioni di trasformazione della politica che sono la vera novità degli ultimi anni.
Se la politica non si occupa più del lavoro e della società (dei problemi della gente, si direbbe), chi se ne occupa? Chi ascolta, filtra, trasmette, rappresenta i bisogni sociali vecchi e nuovi? Qualcuno lo deve fare perché la politica è come la fisica: non sopporta a lungo il vuoto. Quel vuoto già oggi viene attraversato da onde populiste (non solo a destra) e da figure di leader a scarsa propensione partecipativa nella gestione del potere. Questo modo di essere si è diffuso ad ogni livello, non solo della politica e delle istituzioni nazionali. Ma l’occupazione del vuoto della rappresentanza da parte dei populismi-leaderismi non è stabile, anche perché non corrisponde seriamente ai bisogni sociali. Li blandisce, li amplifica confondendo spesso il bisogno reale con la sua rappresentazione mediatica, ma non li soddisfa. Al contrario, quel vuoto è sempre più occupato da forme di auto rappresentanza che, definito un bisogno, si organizzano per corrispondergli anche autonomamente un servizio. È il mondo dell’associazionismo ad aver parzialmente supplito in questi anni il vuoto della politica
Da ultimo sta iniziando a farlo, seppur sperimentalmente, anche il sindacato. Con la contrattazione sociale territoriale. In parte difensiva, a vantaggio degli anziani e dei cittadini che necessitano assistenza o aiuto economico. In parte innovativa, assumendo bisogni generali delle persone e del territorio di appartenenza. Anche perché, indebolendosi il ruolo sociale del lavoro e la capacità sindacale di rappresentarlo e contrattarne le esigenze sul luogo di lavoro, la sfera sociale è diventata sempre più un terreno di complemento contrattuale alle difficili conquiste aziendali. La crisi ha rimescolato il rapporto tra lavoratore e cittadino, insomma, e il sindacato inizia a muoversi sui diritti di cittadinanza pensando anche al lavoro.
La vittoria della Cgil sui referendum si inserisce in questo ambito? Certo occupa uno spazio che avrebbe dovuto essere della politica, se la politica avesse orecchie attente e capacità di dare risposte coerenti ai cittadini. È un ruolo transitorio (una supplenza a breve) quello del sindacato-politico-legislatore? Dipende essenzialmente dalle dinamiche di forma e contenuto con cui la politica evolverà. È quindi difficile pensare che sia una transizione breve, almeno in Italia. Forse, tra concertazione classica e sconcerto attuale, sarebbe bene ricominciare subito a costruire relazioni normali tra politica e corpi sociali intermedi a livello territoriale e nazionale. Relazioni che, quando sono costanti e di merito, fanno bene a entrambi i versanti.
È notizia di questi giorni che la nuova politica europea forse riparte dalla socialdemocrazia tedesca. Dopo la crisi del comunismo e del socialismo italiani, dopo lo smarrimento dei solo “democratici”, forse si ricomincia a parlare di questioni sociali e del lavoro. Speriamo.
Intanto la Cgil ha vinto la sua battaglia legislativa. Finite le comprensibili celebrazioni della vittoria, sarebbe bene aprire una seria riflessione sulla prospettiva della rappresentanza sociale. È ormai stagione di congresso.