Per capire i problemi del lavoro nel mondo dei Call Center è necessario avere bene in mente alcuni dati di fatto essenziali. I servizi di call center rispondono principalmente ad un’esigenza produttiva di chi offre servizi e prodotti ad un mercato consumer (telecomunicazioni, utilities, enti pubblici, ecc..) e che, di conseguenza, ha bisogno di instaurare un rapporto qualificato di massa con la clientela. I grandi fruitori industriali di questi servizi sin dagli anni novanta hanno avviato un percorso di progressivo affidamento all’esterno delle attività dando così vita al nuovo comparto produttivo – nel quale sono oggi occupati circa 80 mila addetti – delle imprese specializzate in servizi di call center in outsourcing. Queste imprese hanno una struttura industriale che le rende uniche. Si tratta infatti di imprese labour intensive nelle quali l’85% dei costi di produzione è dato dal costo del lavoro ed il costo del lavoro, di conseguenza, è una fattore di competizione determinante.
Era inevitabile che in questo particolarissimo settore produttivo di outsourcer la dura concorrenza tra i suoi protagonisti, ed ancor prima la ristrettissima cerchia della grande committenza, mettesse a dura prova la tenuta del sistema giuslavoristico cui, direttamente od indirettamente, è demandato per legge il compito di definire i criteri di quantificazione del costo del lavoro.
In una prima fase è stato il tempo della collaborazioni autonome, ma la miscela di bassi salari ed assenze di tutele ha prodotto una situazione che già agli inizi del 2000 sembrava oramai insostenibile. All’epoca si poneva una scelta chiara. Continuare ad utilizzare le collaborazioni autonome rinforzando anche convenzionalmente, e cioè con accordi sindacali, il livello di protezione, oppure imporre una transizione di massa verso il lavoro subordinato.
Ero e sono ancora oggi convinto che la prima soluzione fosse per tante ragioni la più adatta, ma anche per effetto del determinante impulso delle attività ispettive fu scelta la seconda strada, poi definitivamente consacrata con il percorso di stabilizzazione avviato nel 2007.
Oggi i lavoratori sono prevalentemente occupati con contratti di lavoro subordinato da imprese che applicano il contratto collettivo delle telecomunicazioni ma sono le cronache di questi mesi a raccontare la crisi di piccoli e grandi gruppi. Storie di fallimenti, commissariamenti, di cassa integrazione e mobilità per migliaia di lavoratori che stanno mettendo alla corda la tenuta di un sistema.
Provo ad evidenziare solo alcune delle questioni giuslavoristiche più significative.
In molti casi la grande committenza affida all’esterno l’erogazione di servizi di call center con contratti che prevedono una grande flessibilità dei volumi di produzione ed una struttura del corrispettivo legata al risultato utile. Negli anni novanta tale meccanismo veniva replicato sulla struttura della regolamentazione economica e normativa dei contratti di collaborazione autonoma e ciò creava, tra l’altro, un parallelismo coerente tra modelli di compensazione dell’impresa e del lavoro. Il passaggio al contratto di lavoro subordinato ha determinato un sensibile incremento di costi ed ha reso inevitabilmente più rigido il sistema di retribuzione del lavoro senza che a ciò corrispondesse una revisione dei contratti di servizi né, d’altra parte, la negoziazione di un sistema di compensazione del lavoro in grado di valorizzare adeguatamente la componente variabile del salario.
L’inquadramento degli operatori addetti alle attività di call center, ed il conseguente livello retributivo, è estremamente variabile ed oggetto di contrattazioni aziendali dagli esiti imprevedibili. Per quanto l’ultimo rinnovo del contratto collettivo delle telecomunicazioni abbia cercato di razionalizzare la materia prevedendo un percorso professionale più definito (con inserimento al 2° livello, passaggio automatico al 3° e passaggio discrezionale al 4°) rimane, di fatto, una significativa differenziazione rimessa alla discrezionalità delle strutture decentrate delle organizzazioni sindacali e prevalentemente guidata da due criteri: l’area territoriale di riferimento, con la propensione a contenere l’inquadramento nelle zone più depresse, e la dimensione dell’impresa, con la propensione ad aumentare la spinta rivendicativa nelle realtà aziendali più strutturate ove maggiore è la competizione sindacale verso la maggiore rappresentatività.
Anche il sistema degli sgravi e delle agevolazioni all’impiego penalizza, soprattutto in un momento di crisi nel quale si registra la massima disponibilità di risorse in cassa integrazione o mobilità, le imprese che operano nel mercato da più tempo e che hanno un maggior numero di risorse occupate.
Gran parte delle imprese di settore ha beneficiato dello sgravio contributivo di trentasei mesi previsto per le assunzioni di soggetti disoccupati da ventiquattro mesi. Ma le imprese che hanno strutturato un piano industriale pensando di traguardare la scadenza del periodo di vigenza degli sgravi si trovano a concorrere, ai fini della prosecuzione della medesima attività loro commissionata, con imprese di nuova costituzione che – potendo attivare i medesimi sgravi – si offrono alla committenza con un costo del lavoro più vantaggioso per subentrare nell’erogazione del medesimo servizio. Il problema è che la concessione degli sgravi per l’assunzione di disoccupati di lungo periodo dovrebbe, onde evitare che alla creazione di nuova occupazione corrisponda una pari creazione di disoccupazione, anche tener conto della tipologia di attività dedotta nel contratto di servizi che lega il committente all’outsourcer. Ciò al fine di evitare, per l’appunto, che la medesima attività possa beneficiare ad oltranza di sgravi contributivi semplicemente facendo leva sul turnover di imprese fornitrici.
Altresì rilevante è il meccanismo di incentivazioni per le assunzioni di lavoratori collocati in cassa integrazione od in mobilità, anche in deroga, dove la ratio dell’istituto risulta spesso piegata ad insidiose logiche di brevissimo periodo che non agevolano la stabilità industriale del settore. In presenza di un’impresa che si colloca fuori mercato per un eccessivo costo del lavoro rispetto ai concorrenti sono le stesse organizzazioni sindacali a caldeggiare il passaggio della commessa ad un diverso outsourcer che possa, assumendo le persone collocate in cassa integrazione o mobilità dal precedente appaltatore, garantire un pari livello retributivo pur sostenendo un costo del lavoro temporaneamente bilanciato dalle agevolazioni in quel caso applicabili. Il che, a ben vedere, consente di fronteggiare un’emergenza evitando però di affrontare – come in effetti fino ad oggi non si è affrontato – una più rilevante questione strutturale.
In tale contesto, ma altro ci sarebbe da aggiungere ad esempio sul tema delle modalità di applicazione dell’IRAP, è piuttosto chiara quale sia la sfida che pone questo delicato settore al sistema economico nel suo complesso.
Occorre in fine dei conti solo decidere se tutto deve essere lasciato così com’è, a beneficio del maggiore spazio che l’attuale variabilità dei costi del lavoro lascia alla committenza nella determinazione del prezzo di acquisto dei servizi di call center, o se invece è necessario intraprendere un percorso che sposti la concorrenza tra gli outsourcer dal campo del costo del lavoro, destinato in questa prospettiva ad un progressivo livellamento verso l’alto, a quello della qualità del servizio.
Certamente alle parti sociali spetterà un voce determinante nella scelta di campo. Ma non di meno è importante sapere cosa ne pensa la committenza.
Marco Marazza, professore di diritto del lavoro dell’Università di Teramo