Bene ha fatto il Diario del Lavoro a riproporre il tema dei call center, che per un periodo di circa due anni sono stati vissuti come il luogo infernale nel quale si praticava il massimo dello sfruttamento padronale, dove migliaia di giovani donne e uomini venivano sottopagati ed erano alla mercè di padroni biechi che avevano come unico scopo quello non di guadagnare il giusto ma di lucrare sulla fatica di quelle migliaia di giovani.
Poi, all’improvviso come sempre più spesso accade in Italia, l’intero argomento, i call center e le migliaia di addetti sono spariti dai giornali: nessun artista ha più sentito il bisogno di descrivere le condizioni di vita e di lavoro di quei diabolici luoghi, i sindacati hanno smesso di proclamare scioperi, la politica di sinistra ha scoperto altre cose di cui occuparsi, persino la chiesa ha smesso di parlare dell'”inferno” in terra.
Mi sono chiesto molte volte come mai sia calato questo silenzio, ma non sono riuscito a trovare una risposta. O meglio, me ne sono date alcune che tenterò di spiegare e condividere.
Il “problema” dei call center nasce quando molte grandi aziende decidono di dare in outsourcing le attività connesse e, contemporaneamente, alcune ne mettono a gara le attivita’: non sulla base della soddisfazione del cliente, o della qualità, ma unicamente sulla base del prezzo. Un sistema il cui risultato finale era: chi meno offriva si aggiudicava l’appalto.
E’ facile immaginare come questo atteggiamento favorisse le aziende più disinvolte, che proponevano ribassi esclusivamente sui compensi dei lavoratori a progetto (in alcune realtà del Sud si era arrivati a compensi complessivi di 2 euro all’ora). Da questo e’ scaturito una sorta di Far West, nonche’ una sleale competizione fra aziende che tentavano di applicare leggi e contratti, e aziende che invece, pur di accaparrarsi la commessa, proponevano condizioni inaccettabili. Il tutto con l’aggravante di situazioni economico-sociali-territoriali nelle quali era oggettivamente difficile rifiutare una qualsivoglia offerta di lavoro, a qualunque condizione venisse proposta.
Diversa è la situazione descritta dal Diario del Lavoro nella sua interessante inchiesta condotta nei call center in house di grandi aziende che hanno la centralità del cliente, e la rapida soluzione dei suoi problemi, come elemento di retention e di sviluppo della propria attività; e che quindi considerano il lavoro che lì viene svolto come un impegno fra i più importanti all’interno dell’azienda stessa. Di conseguenza, applicano trattamenti salariali, normativi, formativi, assolutamente rispettosi dei contratti nazionali e aziendali e, anzi, in alcuni casi, offrendo condizioni addirittura migliori.
Ancora diverso il caso dei call center in outsourcing, come quello in cui ho lavorato per alcuni anni (peraltro al centro di infuocate polemiche), dove si tentava, pur in una situazione difficile, di coniugare una politica di prezzi ragionevole (sempre con grandi discussioni con le aziende committenti…) e la qualità. Era difficile, complicato soprattutto quando alcune grandissime aziende della pubblica amministrazione sceglievano come interlocutori quei call center che continuavano a partecipare alle gare giocando unicamente al ribasso del costo del lavoro e, ironia della sorte, proprio alcune di queste grandi aziende committenti erano le stesse che avrebbero dovuto controllare che si applicassero leggi e contratti…
Senza dubbio del lavoro a progetto si è abusato; e in qualche modo si è andati al di là dello spirito di Marco Biagi che intendeva questo come uno strumento di ingresso nel mercato del lavoro per
migliaia di giovani e non che questo fosse l’unica opportunità di impiego. Ma non si può far finta che questa non sia stata, per molti giovani, l’unica occasione per entrare nel mercato del lavoro, e per altri quella di avere un reddito che sostenesse la condizione di studente universitario, di casalinga, di chi cercava per vari motivi un impiego il più flessibile possibile.
Il mio gruppo, nonostante all’epoca avesse fra le sue societa’ Atesia, luogo simbolo della lotta ai call center, si battè a lungo perché il lavoro a progetto fosse normato. Vennero siglati accordi nei quali si prevedevano le prime garanzie per i lavoratori a progetto: a partire da un compenso ragionevole, dalla creazione di casse di solidarietà sovvenzionate dall’azienda per garantire malattie certificate, dal mantenimento del posto di lavoro (a progetto) per le donne in maternità, fino ad arrivare a condividere con il ministero del Lavoro la norma che prevedeva l’assunzione a tempo indeterminato di gran parte di quei lavoratori. In Atesia solo una parte di essi accettò: per altri, infatti, la priorità era quella di avere la possibilità di guadagnare nella “loro” piena flessibilità . E quindi, va detto, in centinaia rifiutarono l’assunzione: spiegando che, appunto, della flessibilità loro avevano fatto, almeno per quel periodo della loro esistenza, uno stile di vita.
Io credo che, se ci si fosse mossi meglio, sarebbe stato possibile evitare contrapposizioni violente, la caccia alle streghe, le minacce, le “grandi manifestazioni”; forse, si sarebbe arrivati prima a una intelligente soluzione dei problemi.
Ma si sa, i nostri “opinion leader” si muovono sulla base di campagne utili al momento e rifuggono dalla riflessione, dal ragionamento, dalle analisi reali delle condizioni, dalla distinzione fra problemi veri e disastri…preferendo questi ultimi forse perché sono i più facili da affrontare. Salvo passare ad altro, quando si ritiene esaurito l’argomento.
Luciano Scalia, ex Responsabile Risorse Umane e Organizzazione di
COS.IT