La discussione sui ‘servizi collettivizzanti’ ospitata da Diario del Lavoro negli ultimi mesi si è rivelata ricca di spunti ed implicazioni per immaginare il cambiamento dell’azione sindacale prossima ventura.
All’origine si trova il progetto BreakBack, realizzato dal Centro Studi Cisl di Firenze, che ha mostrato con dovizia di supporti comparati, la diffusione in diversi paesi di una generazione nuova di servizi, capaci di soddisfare le istanze individuali dei lavoratori, ma anche di promuovere la loro appartenenza verso le organizzazioni sindacali. Servizi rivolti in primo luogo a fasce di lavoratori più deboli e vulnerabili, ma che possono essere considerati come una traccia di larga portata per un’attività di tutela orientata a muoversi a tuttotondo e capace di coniugare la soddisfazione di bisogni immediati con istanze di carattere più ampio e di lungo periodo.
Appare difficile dare conto di tutte le angolature d’analisi che sono emerse: dal ‘perenne movimento del sindacato’ (Mascini), dal ‘cambiare pelle per rinnovare la comunità del lavoro ‘(Bellini e Gherardini), dall‘ideale al servicing strategico’ (Massagli), fino all’intreccio delle dimensioni dell’io e del noi’ (Fumarola); e l’elenco potrebbe continuare grazie ai tanti interventi (Lani, Franchi e Nasoni, Veghini), ben orchestrati da Francesco Lauria, animatore dell’intero percorso, che hanno esplorato aspetti specifici, nuove esperienze e concetti generali.
Intanto mi chiederei come mai ci troviamo di fronte tutto questo interesse verso un oggetto, generalmente poco dibattuto e apparentemente ‘tecnico’.
La prima spiegazione è che nel mondo avanzato i sindacati non se la passano bene e si interrogano su quali siano gli strumenti migliori ai fini della loro riproduzione futura. Questo vale anche per sindacati, come quelli italiani, che vantano un radicamento ed insediamento molto solidi: tali da mantenere una presa sociale comunque elevata, ed anche da disporre di risorse per investire nel cambiamento organizzativo, di cui i nuovi servizi raccontano un capitolo importante.
La seconda spiegazione che azzardo, assumendomene la responsabilità, è che i dibattiti sindacali tradizionali, congressuali e para-congressuali, non costituiscano una valvola di sfogo adeguata agli interrogativi, alle speranze e alle proposte che emergono dalle domande di fondo che emergono dai quadri più sensibili. Anche perché quelle modalità tendono a svilupparsi ‘dall’alto’ e a ‘distanza’ rispetto ai tanti rivoli micro-organizzativi, intorno ai quali si concentra lo sforzo di innovazione e l’immaginazione pratica di tanti funzionari e operatori sindacali.
Qualche considerazione di natura più generale può anche aiutare a contestualizzare questo dibattito in una luce più precisa.
In primo luogo possiamo ritenere che esso attesti un avvenuto passaggio di fase nella cultura delle organizzazioni e degli studiosi: la questione dei servizi si afferma sempre più come un nodo centrale, e non eludibile, per l’attività sindacale. Già alcuni studiosi (Feltrin in particolare) avevano segnalato in precedenza questo dato: i servizi sono diventati una componente costitutiva dell’azione sindacale e della dinamica delle iscrizioni (e forse lo sono sempre stati, anche se in modo diverso a seconda dei periodi). In passato queste attività di assistenza e tutela, anche individuali, erano state spesso accompagnate da un velo di ipocrisia: per cui esse venivano svolte intensamente e con successo, ma la narrazione ufficiale tendeva ad attenuarne la portata, anche di natura simbolica. Ora siamo entrati – anche grazie a questa discussione e alla proposta di una nuova generazione di ‘servizi collettivizzanti’ – in uno scenario diverso, quello del riconoscimento della funzione incontestabilmente essenziale svolta dalle (varie) attività di servizio.
Ma questo cosa vuol dire esattamente? Significa, come ritengono alcuni, che ne esca consolidata la tesi di una sorta di ruolo ‘esclusivo’ dei servizi, i quali nel corso degli anni surrogano progressivamente l’indebolimento di altri fattori di promozione delle attività sindacale e della membership? E alla lunga restano in campo come il solo pilastro valido dell’organizzazione?
In realtà i numeri delle indagini sul campo, anche recenti, relative alle ragioni della adesione e non adesione ai sindacati, non confortano questa suggestione più radicale. Da un duplice punto di vista. Infatti come è possibile vedere, basandoci sulle elaborazioni statistiche, i singoli, i lavoratori, tendono in linea di massima ad aderire ai sindacati non per una sola ragione, ma per una pluralità di motivi (in sintesi: di tutela nei luoghi di lavoro, identitari e di protezione assistenziale), che compongono il mosaico degli incentivi verso i quali essi si mostrano variamente reattivi. Ed inoltre, anche se si osserva la gerarchia delle motivazioni che spingono verso l’iscrizione, pure in questo caso si arriva ad una conclusione analoga. In effetti si può notare al riguardo come, per quanto crescente, il driver dei servizi, se preso da solo, accompagna (ma non azzera) le altre modalità di adesione, le quali si mostrano estese e resilienti nel tempo (più di quanto si pensi generalmente).
Quello che la ricerca e la discussione, da cui traiamo spunto, ci ricordano è invece un’altra traiettoria. Quella per la quale stiamo assistendo ad un rimodellamento e ad una ricombinazione delle modalità d’azione sindacale classiche. Dentro questo processo – finora accennato, ma che andrebbe ampliato – le azioni di tutela individuale si intrecciano ad altre modalità più coinvolgenti e militanti. Si arriva così, per gradi, a costruire un rapporto di fiducia basato sulla presa in carico, sull’azione di rappresentanza, oltre che sull’efficacia della risposta al problema specifico (Bellini e Gherardini). E in questo modo il rapporto tra lavoratore e struttura viene non solo costruito, ma anche alimentato e diventa meno occasionale.
In altri termini le sollecitazioni che vengono da questo studio – e dal dibattito che ne è seguito – ci inducono a mettere in discussione gli schemi troppo semplici e binari che circolano nella letteratura scientifica. E che ci raccontano di una meccanica contrapposizione tra l’ ‘organizing’ e il ‘servicing’, tra l’azione dal basso per mobilitare e reclutare nuovi iscritti, e quella più incardinata sull’offerta di servizi come prima faccia del contatto con il potenziale aderente. Se quello che ci viene qui descritto ha un fondamento – e a me pare di si – questo manicheismo appare poco idoneo ad interpretare i cambiamenti organizzativi in atto (i quali andrebbero comunque consolidati e generalizzati). I quali invece ci narrano di una inevitabile sovrapposizione – specie se esiste una regia intelligente – tra gli sforzi per far uscire dalla passività alcuni gruppi di lavoratori e il supporto, di cui questi necessitano comunque per acquisire zoccoli di diritti e tutele, e risolvere i loro problemi individuali.
Insomma le pratiche, e il ragionamento che ne consegue, vertono sull’insieme dei cambiamenti organizzativi, plurali e non monodimensionali, di cui i sindacati avvertono il bisogno se vogliono interagire con maggiore penetrazione verso l‘universo di lavori, lavorini e di lavoratori che popola un mercato del lavoro dai confini più mobili (senza trascurare il resto).
Appare chiaro che questi cambiamenti debbono andare oltre la presenza ‘puntiforme’ che aveva segnato l’azione sindacale nel periodo taylor-fordista: dando vita ad un radicamento in luoghi precisi, fisici e spesso grandi. Oggi invece questa azione a più dimensioni, che mira a sommarle, serve a spalmare negli spazi fisici, nelle imprese fluide e nelle reti tecnologiche un soggetto sindacale destinato ad operare a misura di una costellazione mobile di ‘lavorini’, diluiti discontinui e frammentati.
In questo senso i servizi nel loro insieme si trasformano in qualcosa di diverso rispetto alle precedenti configurazioni.
Essi erano spesso concepiti come l’integrazione di un’azione sindacale zoppicante e che necessitava di un solido ricostituente. Invece essi si profilano come il valore aggiunto di un’offerta complessa di tutele, varia e ricca, all’interno della quale le attività di servizio possono costituire oltre che una chiave pratica, anche un collante in precedenza imprevisto.
Piuttosto la questione aperta riguarda il rafforzamento di questa ottica multidimensionale, e la sua traslazione operativa, in tutte le attività, di servizio e contrattuali, svolte dai sindacati: esse sono necessarie per larga parte dei lavoratori, dal momento che essi nel loro insieme – standard non standard e oltre – sono tutti attraversati da un senso di insicurezza che solo in questo modo può essere contrastato e tenuto sotto controllo.
Questo però è il compito del processo sindacale nel suo complesso. Già ora le strutture e i sindacalisti sul campo danno mostra di un incessante adattamento organizzativo, che permette un costante riaggiustamento dal vivo degli spazi e degli strumenti dell’azione sindacale. Si tratta quindi di creare i presupposti per rendere questo andamento da spontaneo che è ben regolato, strutturato e generalizzato.
La sua portata e il suo successo dipendono quindi dalla capacità di indirizzo verso tutte le articolazioni organizzative. Ma anche dall’inevitabile aggiornamento della narrazione sindacale, ancora troppo centrata su un mondo del lavoro che si va restringendo, e non pienamente focalizzata sulla rappresentazione dell’attuale universo dei lavori
Mimmo Carrieri