Valeria Fedeli, oggi vicepresidente vicario del Senato, ieri dirigente di spicco della Cgil. Una vita ai tavoli di trattativa, dunque, ed e’ per questo che oggi le abbiamo chiesto la sua opinione sulla crisi che attraversa i sindacati, e sulle vie possibili per uscirne. Secondo Fedeli, a indicare le forme di un nuovo modello di relazioni industriali potrebbe essere, a sorpresa, il contratto dei metalmeccanici, il cui negoziato e’ alle prime battute. Ma soprattutto, spiega in questa intervista, il sindacato potrebbe uscire dal declino cui sembra avviato se unitariamente chiedesse una legge a sostegno dell’accordo su rappresentanza e rappresentatività, ottenendo cosi’ un riconoscimento istituzionale. E a proposito di riconoscimento, Fedeli respinge l’idea che questo governo sia apoditticamente contrario al sindacato: che non solo ha, attraverso le audizioni, un’interlocuzione continua con il Parlamento, luogo in cui si fanno le leggi, ma ha anche il sostegno di Palazzo Chigi nei grandi accordi aziendali, che non a caso si firmano alla presidenza del consiglio, con un riconoscimento diretto del ruolo del sindacato.
Valeria Fedeli, è molto grave la crisi che sta vivendo il sindacato?
E’ una crisi molto profonda, analoga a quella che stanno subendo tutti i soggetti di rappresentanza collettiva.
Anche la politica?
La politica è in una situazione diversa, perché poggia la sua forza sulla Costituzione, e sulle elezioni che si svolgono ogni cinque anni. L’istituzione non va in crisi.
Per il sindacato è diverso?
Il sindacato è un ente privato, una libera associazione, può esserci, può anche non esserci.
La Costituzione però riconosce il sindacato all’articolo 39.
Sì, è un aggancio forte, ma quel diritto va esercitato per ottenere un riconoscimento pubblico.
Il sindacato però non ha mai voluto la legge di cui parlava l’articolo 39.
Ed è stato un errore. Il risultato quale è stato? Che il sindacato si trova oggi a essere molto frammentato, un’associazione che rischia di essere sempre più minoritaria nella rappresentanza degli interessi che vuole rappresentare.
Come si può evitare questo destino?
Al sindacato serve il riconoscimento pubblico che può venire da una legge dello Stato. Le parti sociali hanno raggiunto tra loro un accordo sui temi della rappresentanza che sancisce il reciproco riconoscimento. Adesso gli serve una legge di sostegno che dia un riconoscimento istituzionale del suo ruolo. Il processo che ha regolato l’attività del sindacato nel pubblico impiego deve essere esteso al settore del lavoro privato.
Ma se il sindacato non vuole questa legge, non certamente tutto il sindacato?
Se non vuole una legge che ne regoli l’attività, deve rassegnarsi a rimanere nell’ambito delle relazioni con le controparti datoriali. Ma allora non si capisce perché cerchi una relazione con le istituzioni, perché, tanto per capirci, voglia andare a Palazzo Chigi.
Le regole che il sindacato si è dato con il Testo unico del gennaio del 2014 non sono sufficienti a salvarlo dalla crisi?
Il sindacato ha trovato un ottimo compromesso tra le diverse esigenze, senza tradire la sua lunga storia. Però non aver accompagnato quell’accordo con la richiesta, unitaria, di una legge di sostegno è stato un limite forte. Tanto è vero che adesso, nonostante l’accordo su rappresentanza e rappresentatività, non è stato possibile trovare un accordo anche sul modello contrattuale. E’ un segnale evidente di crisi.
Quel disaccordo deve essere superato?
Certamente, perché dopo quel fallimento, che spero non sia definitivo, le categorie sono andate ai rinnovi contrattuali in ordine sparso. Con il rischio che non tutto il mondo del lavoro rappresentato dal sindacato abbia la forza e si trovi nella condizione di rinnovare il contratto. La stagione contrattuale è molto complessa. Per arrivare in fondo è necessario capire a quale modello sindacale si vuole arrivare. Si va verso un modello più vicino a quello tedesco oppure no? Io personalmente credo da sempre che dobbiamo avvicinarci a quel modello, non mutuandolo così come è, confrontandoci e facendo scambi reciproci, meticciandoci sempre più. Su tutto, sulla partecipazione, sul modello contrattuale, sul ruolo del sindacato.
Quando e da dove può arrivare la svolta?
Per ora il sindacato si è difeso con la continuità, ma così non ha fatto quell’azione di rinnovamento che invece era possibile una volta raggiunto l’accordo sul testo unico. Il contratto dei chimici si è mantenuto all’interno della tradizionale qualità degli ultimi anni, ma non ha fatto da apripista per un modello più strutturato.
E allora che deve accadere?
Il sindacato deve superare le sue divisioni. La vera origine della crisi è da cercare negli accordi separati di questi anni. Lì non abbiamo saputo discutere le ragioni della crisi e trovare le ragioni più profonde della ripresa del ruolo del sindacato. In un contesto economico come quello della globalizzazione non ci doveva esimere dall’affrontare il problema del ruolo del sindacato.
E’ possibile ritrovare il filo dell’unità?
Non è facile, ma per esempio i metalmeccanici stanno cercando di farlo. Io penso che, proprio in virtù di questo, con il contratto dei metalmeccanici ancora una volta si gioca la vera partita delle relazioni industriali.
Potrebbe venire da questo contratto la svolta per un nuovo modello di relazioni industriali?
E’ possibile. Ho letto le richieste avanzate da Fiom, Fim e Uilm, contengono interessanti elementi di novità.
Tali da portare a un accordo?
Se i metalmeccanici arrivassero a un accordo unitario riaprirebbero una positiva stagione di relazioni industriali in Italia, un bene per tutto il paese.
Il governo Renzi non sembra amare il sindacato e in genere i corpi intermedi della società.
Farei delle distinzioni. Innanzitutto non bisogna dimenticare che le parti sociali hanno sempre avuto un’interlocuzione con il Parlamento, dove poi si fanno le leggi. Le continue audizioni questo sono, vero dialogo sociale. Poi c’è da dire che il governo fa accordi unitari nelle aziende e li sostiene. Non fa mai accordi separati, non cerca interlocutori per dividere il sindacato.
Questo è importante?
Importante, anche se non sufficiente. Ma il fatto che il governo sostenga questi accordi e li faccia firmare a Palazzo Chigi è un riconoscimento del ruolo e della funzione del sindacato. Un’altra cosa. Quando si è trattato di applicare le regole del Jobs Act il governo ha approvato tutti i decreti delegati, tranne quello sul salario minimo. Non è stato un caso. E del resto tutta la riforma del Jobs Act rilancia la contrattazione, attraverso tutta una serie di rinvii ad accordi tra le parti. E l’aver previsto nella legge di stabilità degli sgravi fiscali per sostenere gli accordi sul welfare aziendale cosa è se non un riconoscimento del ruolo del sindacato?
Massimo Mascini