Il recente dibattito sulla questione salariale in Italia ha diverse angolazioni di analisi e anche diverse implicazioni per quanto riguarda i possibili interventi.
Non c’è dubbio che esista una “questione salariale”, intesa come arretratezza delle retribuzioni in Italia rispetto agli altri paesi europei e non solo.
Nell’area OCSE siamo agli ultimi posti e sicuramente questo stride con la collocazione dell’economia italiana tra i paesi più sviluppati.
Lo stesso Draghi ha segnalato il problema dei “bassi salari”, in riferimento alla questione della domanda interna che dovrebbe essere sostenuta.
Una questione che appare ancora più attuale dopo l’intervento “protezionistico” dei dazi USA.
Tuttavia il problema salariale presenta diverse sfaccettature.
Nel comparto industriale non pare esserci un arretramento significativo delle retribuzioni, anzi, come diversi attenti osservatori hanno già segnalato, caso mai in quel comparto sarebbe più utile parlare di “questione fiscale” visto che le retribuzioni medie hanno ormai raggiunto la soglia critica, oltre la quale le stesse vengono falcidiate da una tassazione sì “progressiva” ma senz’altro da rivedere.
Nel comparto dei servizi, sembra esserci una particolare situazione di retribuzioni molto più basse rispetto al comparto industriale, va osservato che esistono condizioni strutturali che di fatto contribuiscono a mantenere tali retribuzioni molto prossime alla soglia della sopravvivenza. Non dimentichiamo che è in questo comparto che si trova la maggior parte del part-time involontario e particolari tipologie contrattuali, che certo non aiutano la crescita delle retribuzioni.
Per fare solo l’esempio della ristorazione, in Italia ci sono 340.000 ristoranti, con quattro addetti in media ciascuno, il valore aggiunto, pro-capite, del settore è di 37.000 euro l’anno contro quello di 101.000 euro l’anno nel settore della tecnologia informatica. Va da sé che in questo comparto il tema della produttività è quanto mai centrale se si vogliono seriamente incrementare quelle retribuzioni.
Discorso a parte meriterebbe il comparto del pubblico impiego, dove tra limiti di spesa e produttività negativa, il tema delle retribuzioni certamente non può essere affrontato con rivendicazioni contrattuali, peraltro impraticabili, che rischiano di apparire solo una generica “denuncia sociale” non certo utile per affrontare seriamente il nodo produttività/ retribuzioni del settore.
Infine, da più parti, si è indicato come “colpevole” della particolare “moderazione salariale” italiana, la struttura contrattuale, sostanzialmente definita dallo storico accordo Ciampi del 1993.
Tale struttura, che affida al CCNL la tutela dei salari dall’inflazione e alla contrattazione di secondo livello (territoriale e aziendale) la distribuzione (se c’è…) degli incrementi di produttività è stata messa sotto accusa, in tempi recenti, a causa del meccanismo individuato (IPCA) di misurazione dell’inflazione, al netto di quella importata dall’incremento delle materie prime.
Da più parti si è invocato il superamento di questo meccanismo, sia a causa dei recenti shock inflazionistici determinati sia dall’uscita dalla pandemia sia dall’apertura di conflitti inediti nello scenario occidentale (guerra di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina). Inoltre si è chiesto che il CCNL provvedesse alla distribuzione di quote di produttività poiché la contrattazione di secondo livello non copre la maggioranza degli addetti.
Con le più lodevoli intenzioni (la tutela dei salari reali) si è iniziata una “picconatura” del sistema delle relazioni industriali italiane, che magari ha qualche esigenza di “manutenzione” ma che certo non merita di essere stravolto.
E questo per tre semplici ragioni che mi permetto di evidenziare, seppure in modo sintetico.
La prima: la lotta all’inflazione. Come giustamente sottolineava Tarantelli, l’inflazione è la più iniqua delle tasse che colpisce in particolar modo i redditi da lavoro dipendente e quello dei pensionati. Ogni meccanismo che comporta trascinamenti, più o meno automatici, di elevati tassi d’inflazione sui salari nominali, nel medio periodo, non può che comportare una perdita del potere di acquisto reale di quest’ultimi (tanto più in una situazione di cambi fissi in cui non è possibile scaricare questi effetti sulla svalutazione della moneta).
La rincorsa prezzi-salari non può che penalizzare inevitabilmente questi ultimi. Che fare quindi? Lasciare che le fiammate inflazionistiche, per lo più determinate da eventi esogeni al sistema economico nazionale, erodano in modo definitivo il potere di acquisto delle retribuzioni? Certo che no, ma occorre prestare molta attenzione a come si percorre il “sentiero stretto” della difesa deli salari reali nei periodi di alta inflazione.
La seconda ragione: attenzione a fare del contratto nazionale un doppione della contrattazione di secondo livello. È già successo in passato che si affidasse al contratto nazionale il compito (improprio) di distribuire quote di produttività, ma il risultato fu il congelamento della contrattazione aziendale, qualcuno se lo ricorda? Esiste il problema di come coinvolgere la maggior parte dei lavoratori nella contrattazione di secondo livello, ma quello è il vero problema.
Cercare invece scorciatoie nel CCNL vuol dire di fatto scavare la fossa della contrattazione articolata. Basta saperlo!
Infine la terza ragione: la questione fiscale. Non è qui il luogo per evidenziare come ormai solo sul lavoro dipendente ( e pensionati), si stia addensando la maggior parte del prelievo fiscale, ma certo la questione della tutela delle retribuzioni medie (30.000-50.000 euro, lordi annui) diventa sempre più impellente, col rischio che anche tra i sindacati dei lavoratori si facciano strada delle proposte, magari intriganti, come la detassazione degli straordinari o delle mensilità aggiuntive, che di fatto non fanno altro che sottrarre risorse alla contribuzione sociale con la conseguenza inevitabile di restringere ulteriormente il ruolo dello stato sociale, almeno cosi come lo abbiamo conosciuto.
Insomma, scorciatoie non ce ne sono, ed è anche pericoloso percorrerle se davvero si ha a cuore la tutela dei redditi da lavoro. Forse un ritorno, da parte delle parti sociali e del governo ad una “politica dei redditi”, magari più attuale e moderna, potrebbe essere una strada, più faticosa certo, ma strategicamente più corretta per consentire al nostro paese di affrontare le nuove sfide che, soprattutto in questi tempi ormai si stanno palesando chiaramente.
Luigi Marelli