Friedrich Engels era impietoso sul sistema democratico degli Stati Uniti. “Quivi ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto dell’assemblea legislativa dell’Unione quanto dei singoli stati, o che per lo meno vive dell’agitazione per il proprio partito e dopo la vittoria di questo viene compensato con dei posti”. E ancora: “Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa emancipazione del potere dello Stato dalla società della quale in origine era destinato a non essere altro che uno strumento. Ci sono due grandi bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e ai più corrotti fini; e la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano”.
Questa secca bocciatura, redatta nel marzo 1891, è rimasta a lungo nell’immaginario della sinistra di origini marxiste. Repubblicani e democratici sono uguali, due facce della stessa medaglia. Una sfiducia che a sua volta ha prodotto il distacco dalla politica e un forte astensionismo da parte dei ceti più deboli e marginali che non si illudevano di ottenere, dall’uno o dall’altro, vantaggi per le proprie condizioni di vita. Anche la minoranza nera, che ha condotto dure battaglie e pagato un alto prezzo di sangue per ottenere il diritto di voto, non si è mai fatta eccessiva illusioni su un effettivo cambiamento ottenuto con la scheda elettorale.
Un giudizio fortemente radicato nella vecchia Europa, pur tributaria della concezione democratica che ha avuto la sua culla proprio al di là dell’Oceano. E condiviso, come spiegava Massimo Teodori nel suo “Maledetti Americani”, dagli ambienti cattolico-popolari contrari all’edonismo e al consumismo insiti nell’american way of live.
Negli anni della contestazione e delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam le accuse all’imperialismo americano venivano scagliate senza sfumature o distinzioni. Lindon Johnson e Richard Nixon sembravano la stessa cosa. “Yankee go home”, era lo slogan rilanciato di corteo in corteo. Eppure, la libertà ce la avevano portata proprio i vituperati americani. Durante la Prima guerra mondiale la bandiera a stelle e strisce aveva sventolato nei campi di battaglia contro tedeschi e austriaci grazie all’impegno di Woodrow Wilson (premio Nobel per la pace nel 1919 ma ora sottoposto ad una damnatio memoriae a causa delle sue idee segregazioniste). E Franklin Delano Roosevelt, l’uomo del mirabolante new deal, sedeva accanto a Churchill e Stalin dopo la sconfitta del nazifascismo.
Ma poi fu la guerra fredda a riallargare il solco e a dividere la stessa sinistra, con il Pci che restava tributario dell’Urss. Il maccartismo e la caccia al rosso segnarono negli anni Cinquanta un ulteriore rifiuto di ogni apertura di credito nei confronti del sistema americano. Le operazioni sporche della Cia, i golpe in Sudamerica, le continue ingerenze negli altri Paesi, il razzismo non facevano che aggravare la già negativa considerazione.
Solo il mito dei Kennedy ha infranto, almeno psicologicamte, una tale gabbia ideologica. John, anche se è stato l’uomo della sfida con l’Urss per i missili a Cuba e del fallito sbarco nella Baia dei Porci, quello che dopo la costruzione del Muro ha gridato in faccia ai russi “oggi siamo tutti berlinesi”, con il sorriso dolce e suadente è riuscito ad aprire cuori e menti fino ad allora tetragoni al fascino di un presidente americano. E la sua uccisione, ancora immersa nel mistero, ha emozionato anche chi credeva ancora nella costruzione del comunismo.
L’attore Ronald Reagan, paladino di quel monetarismo che aveva fatto proclamare a Milton Friedman che “nessun pasto è gratuito” e vincitore della sfida finale con l’Unione Sovietica, riuscì a raggrumare ostilità, ironia e disprezzo. I due Bush, padre e figlio, sono diventati simbolo della guerra e dell’apoteosi dell’Impero americano ma intanto Mosca era crollata con ignominia, facendo collassare tutto lo scenario politico mondiale.
Bill Clinton è stato, con Tony Blair, l’uomo della Terza Via, al quale si sono aggrappati, come a una divinità salvifica, i post-comunisti nell’affannata ricerca di una nuova identità e di una autorevole legittimazione. Un’infatuazione che di fatto è diventata un alibi per non fare fino in fondo i conti con il proprio passato.
Ma a tagliare definitivamente l’albero del rifiuto piantato da Engels è stato Barak Obama. Il nero alla Casa Bianca, l’incarnazione dell’american dream. La crisi economica, la disoccupazione, le resistenze alla riforma sanitaria, l’opposizione dei suprematisti bianchi, la mancanza di una cospicua maggioranza parlamentare, gli hanno reso la vita difficile. E per Hillary Clinton la battaglia era già persa in partenza.
Come una tempesta inaspettata, è arrivato Donald Trump, scompaginando alleanze e punti di riferimento. È stato come se per quattro anni gli americani avessero ammainata la bandiera dei principi liberali e del rispetto delle minoranze affidandosi ad un aspirante autocrate. Trump è diventato il nume tutelare di populisti e nazionalisti di tutto il mondo, protettore e prezioso alleato dei presunti uomini forti, Jair Bolsonaro e Boris Jonson in testa. Un continuo incitamento a violare le regole di convivenza per sovvertire ogni equilibrio e piegarlo ad una logica tribale, egoista, muscolosa. Il cavaliere oscuro della crociata contro le corrotte e malefiche classi dirigenti che tramano nell’ombra. L’eroe di chi vede complotti ovunque, come gli allucinati seguaci di QAnon convinti che il potere sia nelle mani di satanisti e pedofili e che la stessa pandemia sia frutto di un progetto infernale.
Il 25 ottobre l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, nemico giurato di Papa Francesco, ha scritto a Trump un appello che riassume in modo eclatante quello che i negazionisti si aspettavano da lui: “Un piano globale, denominato Great Reset, è in via di realizzazione. Ne è artefice un’élite che vuole sottomettere l’umanità intera, imponendo misure coercitive con cui limitare drasticamente le libertà delle persone e dei popoli”.
“Scopo del Great Reset – continuava l’ineffabile prelato – è l’imposizione di una dittatura sanitaria finalizzata all’imposizione di misure liberticide, nascoste dietro allettanti promesse di assicurare un reddito universale e di cancellare il debito dei singoli. Prezzo di queste concessioni del Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere la rinuncia alla proprietà privata e l’adesione ad un programma di vaccinazione Covid-19 e Covid-21 promosso da Bill Gates con la collaborazione dei principali gruppi farmaceutici. Aldilà degli enormi interessi economici che muovono i promotori del Great Reset, l’imposizione della vaccinazione si accompagnerà all’obbligo di un passaporto sanitario e di un ID digitale, con il conseguente tracciamento dei contatti di tutta la popolazione mondiale. Chi non accetterà di sottoporsi a queste misure verrà confinato in campi di detenzione o agli arresti domiciliari, e gli verranno confiscati tutti i beni”.
Ed ecco la conclusione: “In alcuni Paesi, il Great Reset dovrebbe essere attivato tra la fine di quest’anno e il primo trimestre del 2021. A tal scopo, sono previsti ulteriori lockdown, ufficialmente giustificati da una presunta seconda e terza ondata della pandemia. Ella sa bene, signor Presidente, quali mezzi siano stati dispiegati per seminare il panico e legittimare draconiane limitazioni delle libertà individuali, provocando ad arte una crisi economica mondiale. Questa crisi serve per rendere irreversibile, nelle intenzioni dei suoi artefici, il ricorso degli Stati al Great Reset, dando il colpo di grazia a un mondo di cui si vuole cancellare completamente l’esistenza e lo stesso ricordo”.
Parole sconvolgenti, che potrebbero essere liquidate come il parto di una mente contorta e malata se non rappresentassero una sorta di manifesto del complottismo e del negazionismo. La stessa ossessione che, più o meno strumentalmente, ha ispirato Trump. Fino alle elezioni di questi giorni con le accuse di truffe e brogli rivolte agli avversari. E non si può prevedere quanto continuerà a soffiare sul fuoco della rivolta. La cultura del sospetto è forse il maggior nemico di Joe Biden.
Ma la sua elezione fa intanto tirare un sospiro di sollievo a coloro, e per fortuna sono tanti, che credono ancora all’uguaglianza e alla giustizia sociale. Per la prima volta una donna, Kamala Harris, entra nella stanza dei bottoni. Avranno molto da fare, lei e lui, per rendere impossibile l’arrivo di un altro Trump. Serve tanto coraggio per dimostrare che il vero complotto è quello di chi vorrebbe distruggere gli equilibri democratici. L’altra America, quella dei sogni progressisti, può diventare l’America. E in ogni caso il Coronavirus ha perso il suo più prezioso alleato. Il bisnonno Friedrich sarebbe d’accordo.
Marco Cianca