Gli incendi che hanno devastato Los Angeles hanno origine non tanto dolosa ma colposa: da errore umano. È lunedì 6 gennaio quando, con un anticipo di 24 ore, l’agenzia meteorologica federale annuncia una allerta al massimo grado per venti oltre forza 10, un evento che si è sviluppato solo negli ultimi cinque anni. I venti “Santa Ana”, simili al Foen, soffiano d’inverno dalle montagne alte quasi 3000 metri che circondano la conca di LA e riscaldano la città creando un clima estivo; ma seccano l’aria e quindi provocano incendi. La novità dell’allerta del 6 gennaio stava nel fatto che zone centrali molto urbanizzate quali Beverly Hills e Santa Monica, spesso risparmiate dal vento, erano invece in “zona rossa”.
L’incendio che ha distrutto Pacific Palisades si è sviluppato nella boscaglia, che è “parco statale”, quindi affidato all’incuria e alla sterpaglia, ma che confina con una zona urbana di ville con piscina in collina. La causa sembra essere stata un precedente incendio dovuto a fuochi d’artificio, mal spento e dunque ripartito col vento. L’incendio di Altadena (sobborgo a Est di Los Angeles a oltre 50KM da Pacific Palisades, in zona più esposta che già aveva conosciuto distruzione qualche anno fa) pare invece il risultato di un cavo elettrico tranciato dal vento (le società elettriche avevano sospeso le forniture in alcune zone più esposte, ma non nel mezzo della città), come indicato in una mezza dozzina di cause depositate da proprietari di case ad Altadena contro la società elettrica locale. Persino Tik Tok ha pubblicità per chi si voglia unire alle numerose class action già iniziate.
La furia di entrambi gli incendi e la distruzione estrema a Pacific Palisades (in realtà già martoriata da un incendio negli anni ’70, ma ricostruita nelle stesse zone e con lo stesso tipo di materiali) sono state causate principalmente dalla forza del vento che ha raggiunto i 120 km orari anche in zone urbane (come da previsione), ed ha impedito qualsiasi utilizzo di mezzi aerei per domare l’incendio. Ma non solo. La città di Los Angeles (Pacific Palisades è un quartiere, non un municipio separato come Beverly Hills che ha servizi propri) è in crisi nera. Affogata dalla criminalità (il 25-30% in più dei tempi pre-Covid, anche se in discesa rispetto alle statistiche quasi sudafricane del 2021-22), affollata di senza tetto il cui numero continua a salire, malgrado un bilancio di dodici miliardi di dollari di cui oltre il 30% destinato proprio ai senza tetto e alla sicurezza manca di almeno 5000 poliziotti rispetto ai tempi pre-Covid e ha un corpo dei vigili del fuoco il cui scopo non è, purtroppo, proteggere da incendi, ma solo impedire che si espandano. Ecco il perché delle immagini di decine di case che bruciavano insieme, ecco il perché degli aiuti che arrivavano fino dal Messico, ed ecco il perché della necessità di vigili del fuoco privati che hanno salvato strutture commerciali e case: erano lì per proteggere i loro clienti, non per arginare fiamme ingovernabili.
La disorganizzazione e la confusione sono state toccate con mano anche da chi vive in zone “sicure” (nell’80 per cento di Los Angeles tutto è normale e non sembra succedere nulla). Mercoledì 8 gennaio è scoppiato un piccolo incendio (15 ettari) in un parco cittadino vicino ad Hollywood. È stata ordinata un’evacuazione, con una pre evacuazione in un raggio di quasi 10 chilometri dall’incendio (il triplo di distanza rispetto agli ordini di evacuazione a Pacific Palisades, e in una zona molto più densamente abitata), ma gli avvisi, mandati con i cellulari, sia per SMS che con chiamata, non differenziavano tra “evacuazione immediata” e “pre evacuzione”. Questo ha causato la fuga di decine di migliaia di persone, ingorghi indicibili e, per la gioia degli albergatori, il tutto esaurito negli alberghi di lusso di Beverly Hills, i cui parcheggi si sono intasati di auto di lusso guidate dalle proverbiali casalinghe disperate in tuta griffata e ciabatte di Hermes.
Ma non è finita: rientrato il falso allarme, nessuno ha fatto notare l’errore. E dunque, puntualmente, due giorni dopo si sono succeduti nuovi ordini di evacuazione fasulli. Alla fine, si è stati costretti a spegnere il sistema di avviso: ora l’unico modo per avere un’idea sullo stato degli incendi è visitare il sito dei pompieri di Los Angeles o accendere la televisione stile anni 80. Ma non prima di aver diramato altri ordini di evacuazione durante il fine settimana. Questi ordini però sono stati seguiti da pochi, perché nel frattempo tutta la zona degli incendi, oltre a un “cuscinetto” di circa mezzo chilometro di larghezza, sono diventati “zona chiusa” pattugliata dalla guardia nazionale: dove non entrano neanche i residenti, ma in compenso sono arrivati gli sciacalli. I quali, generalmente, viaggiano in bicicletta, cioè il mezzo di trasporto preferito dai neri e dai latinos e per questo motivo raramente fermato dalla polizia per evitare accuse di razzismo.
Ancora più confuso l’approccio del sindaco, al momento della catastrofe in Ghana a coltivare le sue relazioni politiche e rientrata a Los Angeles solo due giorni dopo l’inizio degli incendi. Ora sta lottando per salvare la sua carriera politica, lunga trent’anni e dopo i fatti di questi giorni praticamente finita. Più scaltro il governatore della California, l’ultra-liberal Newsom, che ha invitato Trump a visitare i luoghi degli incendi e ha firmato un atto straordinario per eliminare i permessi della agenzia ambientale costiera che consentono di realizzare nuovi edifici nelle zone più colpite.
Al di là della cronaca del disastro, il paesaggio qui è spettrale, ricorda i filmati delle città ucraine bombardate, con un particolare: ci sono ancora meno edifici in piedi. Delle case bruciate si salva solo il camino, che per forza deve essere in mattoni, o, per le case in stile moderno, la “gabbia” metallica su cui vengono montati i listelli di legno e il cartongesso che ne costituiscono le pareti. Solo una dozzina di case si sono salvate, perché realizzate in cemento antisismico: ma è un materiale costosissimo, e infatti si è già stabilito che non verrà imposto a nessuno di utilizzarlo per la ricostruzione, ponendo cosi le basi per altre distruzioni future.
Oltre a Palisades, quartiere ad altissimo prezzo al metro quadro perché relativamente vicino alle zone centrali, ma con un’atmosfera tipica dell’America suburbana, moltissime delle case sulla leggendaria autostrada 1 sul Pacifico sono andate in cenere. Ma la zona di Malibu che tutti conoscono per averla vista nei telefilm è stata risparmiata; del resto, gran parte era già andata a fuoco nel 2018. La meno scintillante Altadena, anche essa già bruciata in parte una decina di anni fa, è stata distrutta al 90%. E sebbene le case siano di minor valore che nelle Palisades, il numero di assicurati è di gran lunga inferiore perché zona di livello medio-basso: con un costo per le assicurazioni vicino ai 15 mila dollari all’anno con le società private (che stanno uscendo dal mercato) e di 8-10 mila con l’assicurazione “statale” (che copre al massimo tre milioni di costi di ricostruzione, in una città dove il prezzo medio di una casa viaggia oltre il milione, e ha riserve totali pari alla metà dei danni degli incendi) molti abitanti non hanno copertura, e dovranno affidarsi alla agenzia federale per i disastri naturali, la Federal Emergency Management Agency (o FEMA). Che però coprirà al massimo il 50% dei danni: non abbastanza per ricostruire, per chi non abbia altre risorse.
E Hollywood? L’industria del cinema non è stata toccata, salvo per le celebrity che hanno perso una delle otto o dieci case di loro proprietà. Ma la crisi che attanaglia il cinema (i Golden Globes, noiosissimi perché istituzionalizzati, si erano tenuti giusto due giorni prima della catastrofe) è comunque sistemica, e quindi poco influenzata dalla distruzione delle Palisades. Gli scenari californiani della costa del Pacifico ormai appaiono in sempre meno film a causa dei costi assurdi per girare a Los Angeles, sostituiti da Miami, dalla Georgia e persino dal Mediterraneo. Mentre gli incentivi fiscali “rubati” dal governatore all’ultimo minuto su un budget che ha ormai consumato tutte le riserve finanziarie dello Stato accumulate nei primi anni duemila, non sembrano aver sortito alcun effetto.
Los Angeles, naturalmente, continuerà ad essere il cervello (i ricchissimi agenti e produttori erano tutti assicurati e hanno minimo tre case in vari punti degli USA, quindi al massimo cambieranno aria per qualche mese), o come si usa dire, la Mecca del cinema. Ma i numerosi aspiranti alla fama che arrivano da tutto il mondo con pochi dollari in tasca e una sceneggiatura in mano o una bella faccia, dovranno più in fretta di chi li ha preceduti capire che in una città dove un appartamento costa come a New York (ma dove serve la macchina: Uber ormai è diventato proibitivo e ha fatto sparire i pochi taxi), una pizza trenta dollari e la benzina il doppio che in Texas, per raggiungere la fama hanno tempo sei mesi al massimo: oltre, rischieranno di finire tra i settantamila senza tetto (quasi il dieci percento del totale di tutti gli USA) che affollano le strade di Los Angeles come in una metropoli del terzo mondo, non certo del primo.
Duccio Mortillaro, avvocato a Los Angeles