René Crevel avrebbe voluto unire surrealismo e comunismo. La trasgressione artistica e l’etica dei Soviet. Un compito impossibile, il cui fallimento lo sconvolse a tal punto da spingerlo al suicidio.
Estate 1935. Nella capitale francese era in programma il congresso degli scrittori “Contro la guerra e il fascismo”. André Breton e Ilja Ehrenburg vennero alle mani.
“Tutta Parigi – ha raccontato Klaus Mann – rise di quella farsa. Ma René Crevel non rise. René, il puro folle, il Parsifal militante, prese la farsa sul serio. Tutto egli prendeva sul serio, la poesia e la rivoluzione, il surrealismo e lo stalinismo, Breton ed Ehrenburg. Egli non voleva tradire né la poesia né la rivoluzione”.
Dopo la rissa, rivelatosi vano ogni tentativo di riconciliazione, andò a casa. “Sono disgustato di tutto”, scrisse su un foglietto di carta. E aprì il beccuccio del gas. Una storia unica, il sacrificio estremo di un genio che odiava la sciocchezza e la cattiveria. Era un ribelle, all’affannosa ricerca della verità. Bello, intelligente, raffinato, amante degli uomini e affascinato dalle donne, malato di tubercolosi, infelice.
Il suo ricordo viene ora riacceso dalla traduzione di “Detours e altri scritti” (Robin edizioni). Qualche recensione, voglia di approfondire. Ricerca di libri sull’argomento. Tra i primi l’ormai introvabile, perché fuori catalogo, “Surrealismo 1919-1969” di Paola Decina Lombardi. Digiti su Google il titolo del volume ed ecco che appare la pubblicità di “Il piacere anale”, “Gay Everyday” e altri ameni tomi di tal genere. Sbigottimento. Perché questa brutale associazione tra palesi interessi letterari e travisata sfera privata?
Shoshana Zuboff, l’autrice di “Il capitalismo della sorveglianza”, sostiene che sarebbe in atto “un colpo di stato cognitivo, basato su una concentrazione senza precedenti di informazioni sul nostro conto e sul potere incontrollato che deriva da questo patrimonio di conoscenza”. L’articolo, pubblicato dal New York Times e rilanciato in Italia dalla rivista Internazionale, riprende la tesi di un’alleanza tra le agenzie di intelligence e i padroni di Internet per una raccolta e controllo globale di tutte le notizie possibili. Le prime si sono mosse per ragioni di sicurezza, in particolare dopo l’attentato alle Torri gemelle, i secondi a puri fini di lucro. Vent’anni dopo, a trionfare sono le ragioni del business. Se tutti sono stati disposti a sacrificare qualche diritto in nome della lotta al terrorismo, ora “il flusso sanguigno” della conoscenza è nelle mani dei colossi del web, che accumulano profitti.
Anche la politica è diventata un affare da vendere o comprare, supportando questo o quell’altro leader, e i governanti sono succubi o complici di una tale alienazione di massa. Le lobby digitali hanno la licenza di rubare le identità di ognuno. Le stesse emozioni sono una merce. Tutto è in offerta. Anche i ricordi, i pensieri, le ansie, le paure, le curiosità, i desideri. Ogni giorno vengono forniti in pasto ai computer mille miliardi di dati. Perché tante applicazioni pretendono di avere accesso alle foto? Furti di personalità. È in gioco la sopravvivenza della democrazia stessa, ammonisce la studiosa americana.
Ma nel caso di Crevel si palesa un golpe culturale persino più inquietante. Quale algoritmo ha deciso che occuparsi di lui assume una valenza sessuale? I cookies, i biscotti spia, sono stati impostati da un criptonazista? Siamo all’arte degenerata? La “profilazione”, come si dice con orribile termine, incasella gusti e tendenze al fine di pubblicizzare prodotti adeguati ai clienti così schedati. Il surrealismo, con tutta evidenza, è catalogato sotto la voce sodomia.
Crevel, l’incomprensione e il fraintendimento, li aveva messi nel conto. Concludendo “Lo spirito contro la ragione” profetizzava: “In altri tempi gli uomini avevano la gioia di piantare degli alberi che chiamavano alberi della libertà. La poesia che ci consegna dei simboli pianta la medesima libertà e la sua anabasi lascia, lontanissimo, dietro e molto sotto di lei, i suoni, i colori che l’esprimono. Ma quale tecnico lo capirà mai?”.
Marco Cianca