Con la primavera ecco che si ripresenta la consueta campagna dei conti pubblici italiani e l’inesorabile ping-pong tra Roma e Bruxelles. Ma ci si avvicina anche al settantesimo anniversario della Repubblica, fondata sul lavoro e che all’articolo 3 recita che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Lavoro, lavoratori in primo piano, dunque. Sarà così anche nelle vicende politiche di questi mesi?
Il quesito non è affatto peregrino visto che le assicurazioni che il Governo è intenzionato a dare in cambio di quella flessibilità dalla quale attingere risorse per la crescita potrebbero non bastare se l’Italia non fornisse anche una dimostrazione di stabilità e coesione sulla quale allo stato attuale è purtroppo lecito dubitare. Ecco perché il richiamo all’articolo 3 aiuta a comprendere quanto sia importante andare oltre dispute ragionieristiche e guardare invece alle potenzialità e alle proposte che provengono dal mondo del lavoro per arrivare a quella famosa “scossa” del sistema economico che manca e rischia di mancare ancora.
E arrivano le previsioni dell’Istat sul primo trimestre del 2016 che segnalano crescita moderata dello +0,1% e con una crescita acquisita per l’anno in corso (ovvero senza variazioni nella realtà economica del Paese) dello 0,4%”. Spiccioli di ripresa. Se poi pensiamo che il trascinamento del 2015 aveva già accumulato (si fa per dire) uno 0,2% di crescita ci si rende conto che l’avvio è per dirla, con carità di patria, assai modesto.
Pesa il contesto internazionale che già aveva condizionato l’intera area dell’euro sul finire del 2015 e i consumi interni fanno quel che possono; meno bene invece i consumi pubblici che ansimano, la domanda estera appare negativa anche a causa delle cattive notizie che giungono da oriente (Giappone in stagnazione e soprattutto il crollo dell’export cinese che preannuncia nuovi problemi per il gigante asiatico). Ma sono soprattutto gli investimenti ancora una volta a latitare e questo capitolo chiama in causa necessariamente Governo e grandi imprese. Senza la ripartenza di investimenti cospicui, dietro i quali ci siano progetti seri di sviluppo, ogni ripresa sarà fragile e provvisoria e l’economia italiana resterà ostaggio del suo debito pubblico e delle intenzioni della Ue. Del resto siamo un paese nel quale, sempre secondo una indagine Istat, le imprese temono assai di più le incertezze sul futuro che ad esempio il malmesso sistema che governa il mercato del lavoro. Si spiega anche così ad esempio il perché abbiano apprezzato assai più gli sgravi contributivi per assumere che non lìIrap o lo stesso contratto a tutele crescenti.
Certo, qualche segnale positivo arriva, ma il guaio è che si inizia ad intravedere anche lo scetticismo di ampi settori dell’opinione pubblica per la reale direzione dell’azione governativa: punta davvero a una fase di solida espansione oppure si limita a mettere, come può, fieno in cascina in attesa dei prossimi eventi politici ed elettorali? Se Bruxelles e la Germania della Merkel ritenessero buona la seconda, ci troveremo nei prossimi mesi alla riedizione del dilemma rigore-crescita che tanto male ha già fatto nel passato alle nostre prospettive economiche ma anche sociali.
Cresce, al di là di tutti gli ottimismi di facciata, la sensazione di rimanere un paese economicamente in bilico con le stime sull’occupazione molto altalenanti; questo avviene perché la riflessione sulla situazione occupazionale del paese è svincolata colpevolmente da una necessaria discussione su come sostenere lo sforzo per dare nuove possibilità di crescita al nostro sistema produttivo. Le molte vertenze che il sindacato sta sostenendo in questi mesi, il destino della chimica su tutte, mostrano in tutta evidenza questo limite che è della politica e in parte delle imprese. In tal modo non si riesce a ragionare sulla utilità di ristabilire alcuni fondamentali obiettivi di politica industriale senza i quali c’è il pericolo di un impoverimento ulteriore del settore manifatturiero.
E allora si torna all’interrogativo di partenza: questo andamento di basso profilo come si coniugherà con la manovra economica che occuperà il confronto interno e con la Ue dei prossimi mesi? Il governo con il ministro Padoan si mostra fiducioso su entrambi i fronti. Con Bruxelles si sta ragionando, dice, e sull’interno l’intenzione è quella di procedere con misure che favoriscano il lavoro. Bruxelles aspetta in realtà le mosse italiane sul deficit e sulle misure che attestino la volontà reale di far scendere l’enorme debito pubblico. Ma il richiamo al rigore e all’austerità potrebbe rispuntare alla luce del perdurare di un andamento dell’economia globale al rallentatore.
Palazzo Chigi sostiene di avere alcune frecce al suo arco: quel tanto di ripresa che si è sviluppata nel 2015 comunque ha determinato un aumento delle entrate fiscali, c’è la carta di nuove privatizzazioni e quella di nuove tappe possibili di spending review, come la riduzione drastica del pullulare di società pubbliche sparse nel territorio.
È davvero possibile gestire la credibilità dell’Italia con questo tipo di misure e con mezze riforme che peraltro tardano a dispiegare i loro effetti?
Un fatto è certo: un’economia lumaca non è un’economia buona e l’Italia ha bisogno di compiere un salto di qualità per affermare la sua credibilità. Come nel passato sono tutti i protagonisti dell’economia a dover farsi carico di questo impegno, mettendo da parte sordità ed autoreferenzialità. Ma forse è proprio questo il problema più difficile da affrontare. Sempre che non torni di attualità l’articolo 3 della Costituzione.