Dal sito www.formiche.net diretto da Michele Arnese
Come evitare una ripresa senza lavoro? Quali misure adottare per rovesciare il trend prospettato dai più autorevoli indicatori economici, per cui nel 2014 una crescita dello 0,6 per cento del Prodotto interno lordo si accompagnerà a un’ulteriore impennata del tasso di disoccupazione attestato al di sopra del 12 per cento?
Per rispondere all’interrogativo il giornale on line “Il diario del lavoro” diretto da Massimo Mascini ha promosso al Tempio di Adriano di Roma un convegno dal titolo “Le vie del futuro non sono finite”, che ha visto confrontarsi giuristi, economisti, imprenditori, sindacalisti, politici.
L’ANALISI DEGLI SCIENZIATI SOCIALI
Nessuno, spiega il sociologo Bruno Manghi, era stato in grado di prevedere una crisi che tutti hanno contribuito a costruire, “a partire dalla flessibilità sfuggita di mano”. Per questa ragione lo studioso ritiene essenziale promuovere sul problema lavoro una vasta riflessione e mobilitazione di energie, riavvicinando l’elaborazione culturale e le scelte politiche, come avvenuto negli anni Settanta attorno al tema dell’inflazione. Riguardo alle strade percorribili Manghi non crede alla validità di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, né al reddito minimo obbligatorio “che alimenta il sommerso con misure assistenziali”. Piuttosto indica la via dei mini-job sul modello tedesco, “gettoni di lavoro” che valorizzano attività utili per la comunità e per il territorio.
LA VOCE DELLE IMPRESE
Un’altra proposta giunge da Elisabetta Caldera, direttore Risorse umane di Vodafone, costretta a un taglio del personale basata su contratti di solidarietà per 700 persone su un totale di 7.000 unità. Per la manager è doveroso promuovere l’alternanza tra scuola e attività professionali, e puntare su formazione e aggiornamento nelle fasi di disoccupazione a carico degli imprenditori e dello Stato. “Mentre è difficile immaginare una riduzione delle retribuzioni nel prosieguo della carriera per favorire l’ingresso nell’azienda di persone giovani”.
Tesi recuperate da Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria, il quale punta il dito contro “una realtà formativa che non fa entrare i ragazzi a contatto con il mondo lavorativo”. Una separazione rigida che comincia a incrinarsi grazie al decreto istruzione recentemente convertito in legge per cui nell’ultimo biennio delle scuole superiori, negli anni universitari e negli istituti tecnico-professionali post-secondari, sarà possibile l’alternanza fra studio e contratti di apprendistato. Così, rileva l’imprenditore, “potremo colmare il divario rispetto agli altri paesi europei per tempi di entrata, retribuzione e competenze professionali”.
Altra problematica è messa in luce da Roberto Maglione, direttore Risorse umane di Finmeccanica. Per il quale è più difficile assumere un lavoratore di qualità con un investimento di 30-40 anni che “traghettare” i dipendenti verso un pre-pensionamento con coperture e agevolazioni. La ragione risiede “in una contrattazione per cui a livello nazionale prevalgono veti ed elevata conflittualità ideologica, mentre sul piano aziendale o distrettuale emergono flessibilità e propensione agli accordi”. Ad accrescere la zavorra sulla capacità di creare occupazione è il clima di instabilità nella governance aziendale: “Provocato in Finmeccanica grazie a una gogna mediatica legata all’indagine giudiziaria sulla presunta corruzione nelle forniture aeronavali all’India, che ha coinvolto una realtà imprenditoriale all’avanguardia nel comparto strategico della ricerca tecnologica, militare e di sicurezza. E ci ha fatto perdere commesse per 600 milioni di euro”.
LA LETTURA DEI SINDACATI
Realtà di fronte a cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori scelgono di riproporre i tradizionali cavalli di battaglia. Gaetano Sateriale, coordinatore del Piano per il lavoro della CGIL, rilancia la carta keynesiana di “un intervento dello Stato per stimolare consumi e domanda interna, dare prospettive e indirizzi di politica e innovazione industriale: dalla messa in sicurezza del territorio e dell’assetto idrogeologico al ciclo dei rifiuti e alla riqualificazione urbana edilizia in chiave energetica, dal trasporto pubblico locale e alle autostrade telematiche”. Persuaso che le risorse per un programma di tale respiro esistano e debbano essere utilizzate meglio, l’esponente della confederazione di Corso d’Italia respinge le accuse di “pianificazione sovietica” rivendicando la più ampia flessibilità territoriale. Elasticità e gradualità che “devono guidare anche una lotta rigorosa contro l’evasione fiscale, per evitare il rischio che migliaia di piccole aziende, negozi, botteghe, officine, siano costrette a chiudere dalla sera alla mattina”.
Un’offensiva, puntualizza il segretario confederale della CISL Pietro Cerrito, assolutamente doverosa “per rispetto ed equità verso chi paga tante tasse per assicurare servizi sociali anche a chi le evade. E per riportare alla luce l’economia sommersa”. A suo giudizio anche la spending review può contribuire a rilanciare un circuito produttivo sano, per esempio centralizzando il meccanismo per cui 80 direttori generali di ASL devono riferire alla Corte dei Conti sui 109 miliardi di spesa sanitaria. Mentre sul piano della flessibilità contrattuale “è stato raschiato il fondo del barile, visto il livello retributivo molto basso che coinvolge migliaia di neo-assunti. Piuttosto dovremmo puntare sulle esigenze produttive locali per cui oggi centinaia di psicologi operano nelle reti di assistenza alla persona”.
LA PAROLA DELLA POLITICA
Piena condivisione sull’esigenza di alternare scuola e attività professionale con reali contratti di apprendistato viene espressa da Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio. Il quale avanza due proposte. “Orientare a favore dei dipendenti e delle imprese, e non solo delle aziende come compiuto nel 2006, un taglio del cuneo fiscale accompagnato da incentivi robusti per l’assunzione di giovani, donne e over 50”. E “rovesciare la logica ispiratrice della riforma previdenziale di Elsa Fornero, che posticipando la fuoriuscita dal lavoro ne ostacola e ritarda l’entrata dei giovani”.
Ma l’interrogativo chiave è formulato dal giuslavorista Tiziano Treu, già responsabile del Lavoro e artefice della prima regolamentazione legislativa della flessibilità contrattuale: “Con le attuali condizioni di crisi e densità demografica e di fronte a un panorama eterogeneo di attività retribuite, come rendere universali i diritti sociali impedendo che si risolvano in privilegi corporativi e settoriali? Come evitare il ripetersi delle baby pensioni? Come affrontare il licenziamento senza giusta causa senza ricorrere al reintegro automatico come unico rimedio?”.
LA TESI DEL TECNICO MAURIZIO CASTRO
Una risposta prova a darla Maurizio Castro, docente di Relazioni industriali e Lavoro nel Centro studi “Adapt” creato per iniziativa di Marco Biagi. Già parlamentare del PDL – oggi sceglierebbe il Nuovo Centro-destra “perché crede nei partiti e non nelle corti” – ritiene essenziale oltrepassare una visione parziale dei diritti, per cui lavoratori, produttori, consumatori costituiscono mondi separati e conflittuali. “Tutti coabitano nella stessa realtà produttiva, che può vantare il diritto comunitario alla continuità mentre i lavoratori possono rivendicare i diritti di partecipazione allo svolgimento dell’attività e agli utili aziendali”. È per questo motivo che, “anziché una cittadella ristretta con mura alte a protezione degli insider”, l’economista preferisce “una città molto più ampia con mura più basse per accogliere nel Welfare anche gli outsider”. Esattamente come era scritto nel “Libro bianco” sul lavoro redatto da Biagi nel 2001.
LE SCELTE DEL GOVERNO
Nello stesso alveo culturale si inserisce Carlo dell’Aringa, vice-ministro del Welfare e del Lavoro, che chiede di riconoscere e separare l’intollerabile violazione dei diritti sociali come quello al lavoro scolpito nella Costituzione dai “sacrifici necessari e temporanei in vista di un bene superiore comunitario”. L’esponente del governo porta ad esempio il rapporto tra diritto acquisito alla pensione, assegni previdenziali d’oro e doverosi contributi di solidarietà. E guarda al terreno degli ammortizzatori sociali, “una mole rilevante di risorse ricevute come sostegno del reddito condizionato alla ricerca di una nuova occupazione. Ma che, specie nel caso della cassa integrazione in deroga, devono essere soggette a criteri rigidi di accesso e utilizzo”. È in fondo la logica che ha guidato la creazione dell’ASPI, il nuovo sussidio di disoccupazione previsto dalla riforma del mercato del lavoro realizzata dal governo Monti nel 2012. Un istituto da ancorare a politiche attive per il reinserimento lavorativo, “tramite una rete di servizi più importanti di risorse limitate in una fase di spending review”.
PARLA LUIGI ABETE
È Luigi Abete, presidente di BNL-BNP Paribas, a rilevare l’urgenza di cogliere le opportunità di modernizzazione fino a oggi mancate, per restare nel gruppo di testa dei Paesi più evoluti: “Legge elettorale in grado di garantire un autentico vincitore forte di una legittimazione popolare. Una burocrazia capace di assicurare termini perentori e vincolanti per i propri atti, e di imporre a dirigenti e funzionari regole fondate su merito, responsabilità e mobilità”. Requisiti su cui, rimarca l’imprenditore, è possibile una crescita ragionevole attorno al 2 per cento, che deve orientarsi verso la promozione globale del made in Italy e verso l’accoglienza di chi viene nel nostro paese per le sue ricchezze peculiari.
Obiettivi a suo giudizio favoriti da un buon livello di internazionalizzazione, competitività ed efficacia delle imprese italiane, il cui export, valido 852 miliardi di euro, è aumentato nei paesi extra-europei a fronte di una riduzione dell’import del 10 per cento. “E si tratta di comparti che spaziano dall’alimentare alla componentistica di precisione, dalla meccanica alla moda”. Le iniziative da assumere, spiega il banchiere, prevedono garanzie finanziarie adeguate da parte degli istituti creditizi per le aziende concorrenziali e proiettate verso il mondo. Mentre per sostenere il reddito delle famiglie e da lavoro “è sbagliato gonfiare artificialmente i consumi, perché la via maestra passa per gli investimenti produttivi, privati e pubblici”.
LE PROPOSTE DI INNOCENZO CIPOLLETTA
Piena consonanza con la riflessione di Abete emerge nelle parole di Innocenzo Cipolletta, presidente del Fondo italiano di investimento (partecipato dalla Cassa depositi e prestiti) e direttore generale di Confindustria quando il numero uno di BNL nei ricopriva la presidenza. Nel nostro Paese, ha spiegato Cipolletta, non viene considerata nel giusto valore la proiezione internazionale del tessuto imprenditoriale, la propensione a calibrare sulle esigenze del cliente un prodotto manifatturiero, tessile o meccanico: “Fattori che coinvolgono una quantità e una qualità superiore di lavoro. Un modello di crescita che comprende in sé molteplici mansioni, competenze, specializzazioni. Accrescendo il contributo occupazionale per ogni unità di PIL prodotto”. Per promuovere consumi e domanda interna, la sua ricetta è precisa: “In Italia esiste un enorme patrimonio immobiliare, che non produce ricchezza né circuito produttivo. Anziché farlo restare fossilizzato, potremmo, come in altri Paesi europei, obbligare i proprietari a ristrutturazioni edilizie e riconversioni energetiche che riguardano beni di rilevanza collettiva”.
I CONSIGLI DI ASSTEL
Ben diversa la strada indicata da Cesare Avenia, presidente di Asstel, l’organizzazione che in Confindustria rappresenta le imprese della tecnologia dell’informazione: “Abbiamo voluto proporre l’obiettivo prioritario dell’agenda digitale e della banda larga. Riscontrando resistenze e ostacoli di ogni tipo, così come evidenziato con la miriade di balzelli imposti sull’e-commerce. Sono i mille veti frapposti dai detentori e beneficiari del posto di lavoro analogico all’avvento alla rivoluzione telematica, in cui a valere non è il monte ore accumulato bensì l’apporto di qualità e idee del lavoratore”.
I CONSIGLI DI POLETTI
Una terza direzione viene prospettata da Giuliano Poletti, presidente dell’Alleanza delle cooperative. Per il quale la crisi che ha prodotto una sperequazione intollerabile della ricchezza, sul piano economico prima che etico, “non si risolve con misure fiscali di redistribuzione ma con un pluralismo produttivo che superi la tradizionale dicotomia Stato-mercato”. Rivendicando alla formula cooperativa il valore della “equa produzione della ricchezza”, il rappresentante dell’imprenditoria mutualistica ricorda come “grazie alla spending review possiamo far co-agire sociale, aziende e istituzioni a livello più decentrato possibile, favorendo la creazione di opportunità molecolari produttive sul territorio”. Poi esorta a riformare i contratti di lavoro mettendo al centro il rapporto tra persona e prodotto della sua attività, attuando la nozione di partecipazione economica responsabile”.
L’ANALISI DEGLI STUDIOSI
Fortemente critica verso le scelte compiute dalla classe dirigente, è la disamina degli studiosi intervenuti nel convegno. Maurizio Del Conte, giuslavorista dell’Università Bocconi di Milano, punta il dito contro la riflessione, le ricette e le leggi sul lavoro prevalse negli ultimi vent’anni: “Tutte focalizzate sulla flessibilità in entrata e in uscita. Sulla circolazione e non sulla produzione del lavoro. Su regole accusate di essere troppo rigide, un ostacolo al funzionamento efficace del mercato. Non sul lavoro in sé”. Energie, attenzione, intelligenza, analisi, ricerche culturali e politiche, spiega lo studioso, sono state disperse sulla riduzione del costo del lavoro, senza guardare dentro il lavoro: rimasto inalterato da decenni nell’organizzazione e funzionamento. Tema che coinvolge il contenuto dell’attività lavorativa, il prodotto da vendere. E le relazioni industriali: “La cui modernizzazione avrebbe potuto migliorare il livello di prestazione delle aziende e richiamare gli investimenti produttivi internazionali. Elementi assenti nella riforma messa a punta da Elsa Fornero”.
Fedele a un’ottica liberale-liberista, Riccardo Puglisi, economista dell’Università di Pavia, mette in rilievo i ritardi storici irrisolti che gravano sulle prospettive dell’economia italiana: “L’incertezza del diritto. Una scarsa produttività del tessuto imprenditoriale che non è stata accelerata dalla rivoluzione tecnologica e informatica. E il macigno del debito pubblico”. Che richiederebbe a suo avviso una lotta generazionale assente finora dal panorama mediatico, “visto che risale nel tempo a scelte precise e si riflette oggi nel pagamento obbligatorio degli interessi. E si può affrontare solo con un intervento radicale e di lungo periodo di riduzione della spesa pubblica”.
LA VERSIONE DEL SINDACATO
Terapia da cui dissente Anna Rea, segretario confederale della UIL. La quale rifiuta di cercare “nel pubblico impiego e nella necessaria mobilità dei lavoratori della PA, nelle aziende partecipate dagli enti locali, nelle provincie, nel mercato del lavoro e nella previdenza un capro espiatorio della crisi”. Allo stesso modo l’esponente sindacale ritiene miope ridurre il debito pubblico esclusivamente sul fronte della spesa, senza agire per far crescere il denominatore del rapporto europeo: il PIL. Finalità per la quale “si rendono necessari investimenti pubblici mirati e una relazione industriale moderna. Che in Germania ha prodotto 8 milioni di mini job, ristrutturazione condivisa delle grandi aziende metalmeccaniche, riduzione delle tasse su lavoro e imprese, produttività e competitività industriale”.
Edoardo Petti