Cresce l’occupazione ma non il Pil. È questo il paradosso più eclatante della situazione italiana messa in luce nel XXI Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva presentato stamani al Cnel, al quale hanno partecipato le parti sociali, il governo, nella figura del ministro del Lavoro, Nunzia Catlfo, e studiosi. Dopo l’introduzione del presidente del Cnel, Tiziano Treu, Luciano Lucifora consigliere del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, ha esposto i dati principali del documento.
Un mercato del lavoro, il nostro, nel quale convivono luci e in misura maggiore ombre, con forti squilibri territoriali tra Nord e Sud, salariali, di settore e di genere. Nel rapporto si certifica una ripresa dell’occupazione, che si attesta al 59%, il dato più alto dall’inizio della crisi del 2008. Altri dati positivi emergono dalla trasformazione dei contratti a tempo determinato a quello indeterminato, con un saldo attivo, passato dal 15% al 23%, grazie anche agli ultimi interventi legislativi come il Decreto Dignità. Si è ridotto, inoltre, il rischio che un lavoratore a tempo determinato possa scivolare nella disoccupazione al termine della sua esperienza lavorativa.
Ma non è tutto oro quello che brilla. Un’analisi più accurata di questa occupazione che cresce mette in luce le principali criticità. In Italia, spiega il rapporto, il lavoro è sempre più povero, sia dal punto di vista salariale che delle tutele, soprattutto in quei settori strutturalmente più deboli. Dall’inizio della crisi sono scomparsi quasi 700mila lavoratori full time. Uno spazio lasciato vuoto e occupato dal part-time, soprattutto quello volontario, passato dal 5,8% al 12,3% (interessa più di 1 milione e mezzo di lavoratori).
Un depauperamento del lavoro che ha colpito più duramente i giovani, le donne e gli immigrati, che restano le categorie più deboli. L’occupazione femminile, in part-time involontario, è cresciuta dal 10 al 18% durante il decennio della crisi. Altra nota dolente è la situazione giovanile. Dall’inizio della recessione c’è stato un crollo del 28% dei giovani, tra i 15 e i 24 anni, nel mercato del lavoro. Una tendenza negativa che non risparmia la fascia tra i 25 e i 34 anni, dove il numero dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, dopo la crisi, raggiunge quasi il milione e mezzo. C’è poi il lavoro degli immigrati, funestato ancora dal morbo delle cinque “P”: lavori pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente.
Come uscire da questa situazione? La prima risposta si chiama formazione. Nell’epoca della quarta rivoluzione industriale la formazione continua diventa la prima barriera di difesa e di ricchezza per i lavoratori. Ma anche su questo fronte l’Italia arranca. L’innovazione tecnologica, se ben governata, come ha spiegato Andrea Salvatori dell’Ocse, nei paesi industrializzati sta cambiando, in meglio, il volto del mercato del lavoro. In Italia questo succede a un ritmo molto più lento, ma il dato più allarmante è che sono proprio i lavoratori più bisognosi di formazione a non riceverla.
Altra nota dolente sono le politiche sia attive che passive di sostegno al reddito. In termini quantitativi, in Italia ci sono tra i sussidi più bassi dell’area Ocse. C’è poi un forte squilibrio anche tra i percettori. Infatti le varie forme di sussidio sono pensate soprattutto per chi ha avuto una carriera lavorativa tipica alle spalle, mentre per gli atipici sono di meno gli strumenti di protezione. Insomma il nostro paese continua a mostrare maggiore debolezza e inefficacia in quelle policy che dovrebbero essere destinate al supporto delle fasce più disagiate di cittadini e lavoratori. Un aspetto non certamente confortante, se si pensa che, come ha affermato Alfonso Arpaia della Commissione Europea, proprio i paesi che all’alba della grande crisi del 2008 hanno saputo, per primi, mettere in campo politiche sociali e di tutela dell’occupazione hanno risentito di meno degli effetti della recessione.
Altro strumento per governare le trasformazioni e affrontare le criticità è la contrattazione collettiva, di I° e II° livello. Le parti sociali, intervenute nel corso dei lavori, hanno riaffermato l’importanza dell’azione di intermediazione, operata dal sindacato, e della sua autonomia nei confronti di un’eccessiva regolazione del mercato del lavoro da parte del legislatore.
A Cgil, Cisl e Uil il salario minimo per legge, così come è stato pensato, continua a non convincere, preferendo un’estensione erga omnes della parte salariale presente nei contratti collettivi firmati dalle associazioni più rappresentative. Altro nodo che i tre sindacati confederali hanno posto all’attenzione il gender gap e la necessità di interventi mirati per il rilancio del Sud, attraverso investimenti pubblici e privati. Sul valore della contrattazione, soprattutto quella decentrata, e della formazione, rivolta non solo ai lavoratori ma anche alle imprese, si è espressa l’Unione delle Cooperative e il mondo del commercio e dell’artigianato.
Tutti spunti ai quali la ministra Catalfo ha risposto ribadendo l’attenzione del governo per tutelare i lavoratori precari e atipici. Altro elemento caro alla maggioranza, ha spiegato la ministra grillina, è lo sviluppo e l’implementazione di un Green New Deal, capace di coniugare lavoro e ambiente. Sul versante delle politiche, sia attive che passive, per il lavoro, la Catalfo ha ribadito come l’esecutivo non sia centrato esclusivamente sul reddito di cittadinanza, ma sia impegnato a rafforzare gli strumenti di sostegno al reddito a 360°.
Insomma i punti su dove si deve lavorare e intervenire sono molti e ampi. La cosa più importante sarà capire la natura e la portata degli interventi che si andranno a fare, in un paese zavorrato da una crescita pressoché piatta, con gli ultimi dati Istat sulla produzione industriale che confermano un quadro a tinte fosche, e con una crisi demografica che impone di rivedere il sistema previdenziale e l’intero mercato del lavoro.
Tommaso Nutarelli