In questo delicatissimo momento storico, in cui il nostro sistema paese sta mettendo a punto i piani di sviluppo per poter accedere “con merito” alle ingenti risorse economiche messe a disposizione dall’Europa, è costante lo sprone a PMI e ad aziende di matrice familiare affinché aumentino la presenza sui mercati esteri e sfruttino le opportunità offerta dalla rivoluzione dello scenario globale, anche ad aziende di dimensione più contenuta (tra i 20 e i 50 milioni), tra le quali non sono infrequenti operazioni di investimento all’estero.
Nel nuovo scenario, illustrato da SIMEST nell’ambito del recente Family Business Festival di Genova, la crisi pandemica ha ridisegnato il modello di globalizzazione del commercio internazionale, creando al contempo opportunità per le imprese familiari che vogliano investire sullo sviluppo tramite operazioni di acquisizione all’estero, sia di aziende concorrenti sia di aziende complementari.
D’altra parte, è quasi unanime il riconoscimento che sottomanagerializzazione e sottocapitalizzazione continuano a essere i fattori maggiormente rilevanti e limitanti nelle PMI: a ciò si aggiunga che la lunga onda epidemica rischia di incidere soprattutto sulle imprese che avevano già dato avvio a progetti di sviluppo senza aver però ancora consolidato la propria posizione economica e finanziaria. Per queste imprese, abbandonare forzatamente le strategie di sviluppo, soprattutto dei progetti di ricerca, potrebbe avere effetti negativi di più lungo periodo.
Partiamo dal vincolo manageriale.
Per molte PMI, e per le più piccole in particolare, il vincolo per muoversi agilmente e disinvoltamente sui mercato internazionali, e soprattutto per cambiare mentalità nei confronti dell’internazionalizzazione è rappresentato dalla mancanza di adeguate risorse e competenze manageriali.
A questo riguardo è possibile distinguere tra tre diverse tipologie di impresa: quelle per cui i mercati esteri sono uno sbocco di tipo addizionale e nulla più (imprese esportatrici); quelle innovative che considerano i mercati esteri come fonte di fattori produttivi e quindi come destinatari di investimenti diretti (imprese internazionalizzate); quelle infine che si trovano a metà del percorso (la maggior parte), e che, pur percependo il bisogno di cambiare non sanno come coniugarlo con i vincoli derivanti dal loro passato.
Il problema per le aziende “a metà strada” è come immettere nuove capacità che permettano loro di accelerare i tempi di passaggio alla fase della maturità: il temporary management, nell’accezione fractional/part time per le più piccole, può essere una soluzione ottimale in tal senso.
Una soluzione che le PMI sembrano gradire in modo particolare è, per questo tipo di operazioni, la possibilità di utilizzare temporary manager locali (un indiano in India, per intenderci), in quanto decisamente più competitivi e più efficaci rispetto all’utilizzo di italiani espatriati, data la conoscenza di “usi e costumi”, sistema giuridico, metodi di gestione, lingua e più rapidi nella presa di contatto con il problema e con la locale filiale. Senza dimenticare il sensibile vantaggio in termini di costi.
E’ possibile enucleare una serie di situazioni tipiche, rilevate nel caso di operazioni da parte di aziende a proprietà e controllo italiane verso paesi terzi.
Iniziamo dalla fase di pre-acquisizione, ovvero di identificazione e selezione dei possibili target per un investimento diretto (IDE o FDI) o una JV.
L’utilizzo più frequente è nel caso di acquisizione di quote di controllo (e talvolta di minoranza qualificata) in aziende piccole e/o di matrice familiare in un altro paese. Attraverso manager esperti dello specifico settore risulta più veloce la parte di identificazione dei possibili target, così come i primi contatti preliminari con la proprietà, inizialmente anche su base anonima.
Oltretutto, avvalendosi di un manager che ha conoscenza specifica del settore, risulta essere più efficace ed efficiente anche l’attività di assessment del management esistente, che è uno degli aspetti maggiormente trascurati (anche solo per “ignoranza”) in queste situazioni.
Il contributo di un manager può limitarsi alla sola fase esplorativa e pre-negoziale, ma talvolta si estende alla fase negoziale vera e propria e alle prime fasi di gestione dopo la conclusione del deal, come soluzione ponte per preparare l’ingresso di un manager, sempre locale, su base permanente o semi-permanente.
Spesso, specie nel caso di acquisizione di aziende piccole, l’acquirente decide di mantenere con ruoli operativi uno o più membri del gruppo familiare di controllo originario. La motivazione principale è quella di garantire una transizione soft verso la nuova proprietà, dando tempo a persone che hanno magari un’anzianità aziendale molto elevata e un rapporto fiduciario e personale con la proprietà di adattarsi a nuove logiche e a nuovi comportamenti.
Nella realtà purtroppo si riscontra che tutti gli elementi appena citati funzionano al contrario: gli esponenti della vecchia proprietà finiscono per continuare a gestire l’azienda come se fosse la loro, con una serie di ricadute decisamente poco gradevoli per il nuovo entrante.
E per quanto riguarda il vincolo finanziario, una risposta viene dalla stessa SIMEST che mette a disposizione delle aziende le risorse economiche e finanziarie per poter giocare sui tavoli internazionali, in forma non invasiva, senza quindi entrare nella governance aziendale e senza quindi toccare gli equilibri del controllo: di fatto, forniscono “capitale paziente” con un’ottica di medio-lungo periodo. Con l’ulteriore vantaggio per l’azienda di avere un partner istituzionale che rappresenta il nostro Stato: un grande passo verso la realizzazione del principio di un sistema paese che si muove compatto verso l’estero, sulla falsariga di quello che sono sempre stati maestri a fare i cugini francesi, che peraltro abbiamo sempre invidiato.
Maurizio Quarta – Managing Parner di Temporary Management & Capital Advisors