“Bella regione. Sembra che il torpore che tuttora regna altrove, qui finisca…Anche sul viso degli uomini, delle donne che a frotte percorrono in bicicletta le vostre strade, sembra di cogliere una nota di fierezza e di soddisfazione che altrove non c’è”. Così parlò Palmiro Togliatti. Era il 1946. Nelle elezioni del giugno di quell’anno il Pci e il Psi, assieme, ottennero il 66 per cento dei voti. L’Emilia-Romagna confermava il colore rosso che già nel 1919 aveva premiato i socialisti concedendogli ben oltre la metà dei suffragi. Il fascismo e la guerra non avevano intaccato quella “fierezza” che il Migliore interpretava come un’innata tendenza a pedalare verso il sole dell’avvenire.
Fu buon profeta. Lo ricorda Paul Ginsborg nella sua “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi”, sollevando un quesito: perché quella Regione è stata tanto, e tanto a lungo, comunista? Escludendo, anche se Togliatti sembrava vederlo, un tratto caratteriale impregnato di materialismo storico, una sorta di dna marxista, la risposta va trovata nelle vicende che hanno segnato, pur nella diversità di indole, gli emiliani e i romagnoli. Dal radicato anticlericalismo, figlio dell’oppressivo potere pontificio, alle leghe dei braccianti e alla nascita delle cooperative. Una coesione sociale, una convinta ricerca di alleanze tra ceti diversi in nome di un bene comune, un’accettazione del compromesso che tacitava gli spiriti più ribelli.
Riformismo, nel vero senso della parola. Non comunismo ma efficienza e solidarietà. Una forma umana di mite capitalismo. Il Pci, pur con tanti mal di pancia interni, vendeva il prodotto asserendo con orgoglio che era la prova di come fosse capace di organizzare in modo tranquillo e produttivo la transizione verso il socialismo. Poi, è la cronaca degli ultimi trent’anni, il collasso dell’illusorio edificio. Scomparso il partito di riferimento e saltato in aria, sotto la sferza della crisi economica e politica, quel modello di sviluppo, la paura e l’incertezza hanno preso il posto della fierezza e della soddisfazione. E la propaganda leghista si è diffusa con stupefacente rapidità.
E’ proprio qui, in queste terre simbolo di accoglienza, che andò in scena uno dei primi e più vergognosi episodi di nuovo razzismo di massa. A Gorino, nel ferrarese, gli abitanti, al grido “fuori gli immigrati” fecero le barricate per impedire l’ingresso di dodici profughe con i bambini in braccio. Poi festeggiarono la vittoria con tribale esultanza, salsicce e vino, la loro integrità era salva. Prima gli italiani! Ottobre 2016. Quanti, a sinistra, capirono davvero la profondità di quell’evento? A Matteo Salvini, i frutti della sua propaganda cadono in mano senza che debba faticare per raccoglierli dal ramo.
Non sappiamo se domenica, alle elezioni regionali, trionferà l’ex ministro degli Interni, o se, risvegliato dalla mobilitazione delle sardine, prevarrà lo spirito progressista che s’incarna nelle indubbie capacità riformiste di Stefano Bonaccini. Quel che appare certo, qualunque sia il risultato finale, è che la Lega Nord ha inferto il colpo finale alle Lega delle Cooperative. L’esasperato individualismo acceca anche la più radicata tradizione di collettività aperta. Su questo dovrebbero meditare il Pd in cerca di nuova identità e i Cinquestelle in caduta libera. Altro che giochetti di palazzo, leggi elettorali, farse come quella della nave Gregoretti. Temiamo che una vittoria, pur risicata, venga utilizzata come belletto per nascondere i segni dell’agonia. I tanti nipotini di Togliatti hanno ereditato tutto il suo terribile cinismo ma nulla delle sue capacità.
A proposito, si va alle urne anche in Calabria. Ma questo voto non suscita una passione nazionale come quello dell’Emilia-Romagna. Il Sud è sempre serie B.
Marco Cianca