Il 27 maggio scorso la Corte Suprema Ue dei diritti dell’uomo ha pronunciato una sentenza molto importante contro l’Italia, per la ferma presa di posizione della Corte nei confronti di un sistema, quello italiano, in cui è ancora fortemente radicata una cultura misogina e sessista. La sentenza è legata ad una violenza subita da una giovane nel 2008 in stato di ubriachezza, quando sette ragazzi la violentarono a Firenze e purtroppo la questione recentemente si è ripetuta in Sardegna. In primo grado, sei dei sette accusati toscani vennero condannati a quattro anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale aggravata e successivamente in appello gli imputati vennero tutti assolti con formula piena “perché il fatto non sussiste”, con motivazioni della Corte d’Appello di Firenze che evidenziò “la serie di imprecisioni e contraddizioni” nella ricostruzione dell’evento considerando il racconto della ragazza come non credibile con valutazioni sulla vittima, sulle sue abitudini sessuali e relazionali, definita come “soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso tempo creativo, disinibito, capace di gestire la propria (bi)sessualità”, protagonista, nel corso della serata, di “atteggiamenti particolarmente disinvolti … in un clima … goliardico (e) godereccio”.
Dunque secondo il Collegio dei giudici la ragazza non avrebbe ostacolato in alcun modo l’iniziativa del gruppo, i quali non avevano dunque esercitato alcuna costrizione della volontà della vittima tramite l’uso e l’abuso di alcool. La questione venne conclusa come una vicenda “incresciosa, non encomiabile per nessuno” ma, “un fatto penalmente non censurabile”. Gruppi di associazioni femminili convinte che la pronuncia avesse rappresentato una grave violazione dei diritti fondamentali della vittima, hanno portata la sentenza all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo. E’ bene ricordare due profili: (a) il quadro normativo in tema di violenza di genere e, in particolare, di tutela delle donne che ne sono vittime e (b) gli obblighi, positivi e negativi, in materia scaturenti dalle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In capo alle autorità nazionali ricordiamo vi sono specifici obblighi di tutela nei confronti delle donne vittime di violenza e particolare attenzione viene posta alla condotta degli organi inquirenti e giudicanti, ai quali è richiesto di attivare ogni strumento per proteggere e assistere la vittima nel corso del procedimento.
La Corte di Strasburgo ha inanellato il suo giudizio in applicazione dell’articolo 8 CEDU (rispetto alla vita privata e familiare) da solo e in combinato disposto con gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti); Dichiarazione dei Principi Fondamentali di Giustizia per le Vittime di Reato e di Abuso di Potere del 1985; Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 (CEDAW, la Direttiva 2012/29/UE, “che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, la Convenzione di Istanbul del 2011, sottoscritta dai paesi del Consiglio d’Europa, il cui articolo 18 impegna gli Stati a garantire protezione e sicurezza delle donne, nell’ambito di una più generale “comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica” invitando le autorità affinché si “concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima”.
La Corte ispirandosi a “vittimizzazione secondaria” – o “colpevolizzazione della vittima” (c.d. victim blaming) – quando, a seguito di un episodio di violenza, le autorità (sanitarie e/o giudiziarie), che dovrebbero tutelare e proteggere la vittima, la rendono soggetta a nuove e diverse violenze nella fattispecie anche quando le autorità mettano in dubbio la ricostruzione dei fatti proposta dalla vittima facendo leva su caratteristiche personali che ne minerebbero la credibilità – quali una scarsa educazione, una condizione socio-economica precaria e uno stile di vita ritenuto “non convenzionale”. Sappiamo bene che L’Italia, pur dotandosi, nel corso degli anni, di una normativa abbastanza completa per quanto riguarda il contrasto alla violenza di genere, non ha mai approntato alcuno strumento giuridico per combattere lo specifico fenomeno del c.d. victim blaming. La Corte ha censurato con durezza alcuni passaggi della sentenza della Corte d’Appello di Firenze, giudicando come “inappropriati” e “ingiustificati” i riferimenti alla vita relazionale e all’orientamento sessuale della ricorrente, alla sua condotta e persino ai suoi interessi, così come sono “deplorevoli” e “irrilevanti” i tentativi dei giudici di merito di stigmatizzare il momento di fragilità della ricorrente e le sue abitudini di vita, ritenute “non convenzionali”.
Argomentazioni, queste, che la Corte ha considerato né utili per valutare la credibilità della ricorrente, né pertinenti, né, tantomeno, determinanti per giungere ad una sentenza ed inoltre ha determinato una violazione degli obblighi positivi in capo alle autorità nazionali scaturenti dall’articolo 8 CEDU, che impone di proteggere le vittime non solo con riguardo alla loro integrità fisica, ma anche alla loro immagine, dignità e vita privata. In un passaggio particolarmente significativo, la Corte ha evidenziato come la facoltà dei giudici di esprimersi liberamente nel formulare le proprie decisioni – quale espressione della discrezionalità e dell’indipendenza dei giudici – trova necessariamente un limite nell’obbligo, appunto, di tutelare le vittime e la loro immagine. La questione di genere è un tema aperto nel dibattito pubblico e politico italiano, dove vivono episodi di esplicito sessismo e misoginia, anche da parte di esponenti delle istituzioni. Un problema culturale, diffuso e radicato e che, come nel caso di specie, è esteso anche alle autorità giudiziarie, che dovrebbero rappresentare, almeno teoricamente, baluardo di equità ed uguaglianza. Sicuramente l’adeguamento agli standard europei ed internazionali e la definizione di protocolli più stringenti nello svolgimento di processi su casi di violenza di genere sono un passo importante nel garantire maggiori tutele e protezione alle vittime. Dunque una più equa composizione dei collegi (le donne giudici ci sono!) e una preparazione giuridica più gender-oriented sono necessari perché le vittime di violenza possano essere adeguatamente protette e tutelate.
Alessandra Servidori