Cosa significa essere di sinistra oggi? E come può la sinistra riconquistare il consenso? Per una riflessione sul tema può essere utile prendere spunto dall’ultimo saggio di Fabrizio Barca e Fulvio Lorefice, “Diseguaglianze e conflitto, un anno dopo” (Donzelli Editore). Il libro è estremamente denso e ricco di temi di grande attualità. Non è solo un aggiornamento del precedente volume alla stagione di Meloni e Schlein. Insomma, una lettura consigliata.
Particolarmente innovative paiono le riflessioni del primo capitolo, per comprendere i tanti perché dell’invasione e della guerra in Ucraina a partire dagli errori dell’Occidente compiuti nel momento della fine dell’URSS. Due considerazioni prima di tutto. Erano gli anni di Reagan e della Thatcher e l’Occidente, che credeva nel capitalismo globale senza regole, ha favorito in un’ottica liberista, ispirata al predominio dell’iniziativa privata, la dissoluzione di ogni ruolo dello Stato e la nascita nell’ex URSS di un’economia oligarchica quasi sempre illegale che ha moltiplicato le diseguaglianze e non la libera concorrenza. Passare in pochi anni dal capitalismo di stato al liberismo senza regole ha prodotto il disastro. (Si veda, su questo, il terribile e documentatissimo lavoro di Federico Varese, “La Russia in quattro criminali”, Einaudi Editore).
L’idea che lo sviluppo economico di mercato portasse con sé una necessaria crescita della democrazia si è rivelata anch’essa del tutto infondata. Infine l’errore (davvero molto “occidentale”) di pensare che non esistendo più l’URSS non esistesse più alcun ruolo internazionale del “continente Russia”. Anche il tentativo più progressista di includere la Russia nell’UE era basato (seppure in positivo) su un errore storico di sottovalutazione: la Russia era un impero da prima di Napoleone e non ha mai smesso di esserlo nella cultura diffusa del popolo russo e dei suoi “governanti”, fino a oggi. Pensare di escluderla dal novero delle potenze mondiali è stato un errore che ha favorito (certo non causato) il risorgere dell’ideologia imperialista russa. L’imperialismo russo, come tutti gli imperialismi, nega la facoltà di autodeterminazione dei Paesi e dei popoli che fanno parte dell’impero. Far entrare l’Ucraina nella Nato rafforzerà (anche in larga parte del popolo russo) questa idea dell’impero “attaccato dall’Occidente”, con i rischi catastrofici che ne possono derivare. (Del resto, non è la prima volta che gli USA e le grandi potenze europee sottovalutano cosa significhi umiliare un interlocutore: è accaduto nel 1919 a Versailles con la Germania e ne abbiamo visto le disastrose conseguenze. Cfr. su questo John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace).
Di massima attualità per i risvolti politici italiani è senz’altro il capitolo su “Fermento sociale e il partito che non c’è”. In questa parte del libro, si afferma, giustamente, che la società attuale è più ricca di articolazioni e iniziative di quanto non sia la politica. Anche a sinistra. Poiché la sinistra politica è totalmente presa da una prolungata fase di autocoscienza, piuttosto che non dalla necessità di “reimmergersi nel sociale”. Dall’obbiettivo di costruire alleanze elettorali prima di aver rinnovato una propria identità. È senz’altro vero che l’attivismo sociale sta colmando un vuoto ormai annoso della politica, ma lo fa in forma segmentata, per rappresentanze particolari. Per cui è ancora indispensabile che a sinistra si torni ad ascoltare i problemi sociali e a dargli risposta.
Ma cosa significa essere di sinistra, oggi? Sia sul piano personale che su quello politico? Gli autori si interrogano su questo punto sia dal lato etico-filosofico che da quello politico di partito. Semplificando, ma non troppo, si potrebbe dire che di fronte al moltiplicarsi delle diseguaglianze nel mondo, in Europa e in Italia, diseguaglianze economiche, sociali, ambientali, culturali, tecnologiche, di genere, territoriali, di diritti, persino politiche e democratiche, essere di sinistra significa ritenere che queste diseguaglianze vadano ridotte per tutti, e non solo per alcuni. E che tutti contribuiscano (proporzionalmente al loro reddito) a questo risultato. Chi pensa e attua politiche (o anche comportamenti sociali) che migliorano il benessere di alcuni e non il benessere generale, chi difende corporativamente, o “nazionalisticamente” i propri rappresentati (anche sul piano fiscale) rimuovendo e ignorando il resto dei cittadini è di destra. (Facciamo notare, a questo proposito, che la Presidente Meloni ha resuscitato il concetto di “nazione”, termine che la Treccani definisce: “Il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua e di storia”, cioè molto meno di “Repubblica”, “Paese”, “Stato”).
Insomma non possiamo continuare a credere anche a sinistra che una maggiore eguaglianza si raggiunga con l’autoregolazione dei mercati e la redistribuzione “automatica” dei benefici in termini di benessere diffuso: perché “negli ultimi 200 anni non è mai accaduto” come dice Papa Francesco. Le diseguaglianze non crescono “da sole”: crescono per politiche sbagliate, economiche, sociali e ambientali. Insomma, non basta dar vita a identità culturali di sinistra, si devono attuare politiche concrete (a 360 gradi) che sappiano ridurre le diseguaglianze e produrre nuove eguaglianze di diritti e di benessere. Certo, come si sostiene nel libro, non sono sufficienti le pari opportunità di partenza (tantomeno i pur necessari aiuti agli “ultimi”). Bisogna raggiungere maggiori livelli di benessere per le persone e per l’ambiente: per i cittadini, tutti, e i territori in cui vivono. E rimettere in moto l’”ascensore sociale”, bloccato dagli anni 90, se si vogliono dare nuove prospettive ai giovani. (Anche in questo caso le parole della Premier non tranquillizzano. Se continua a insistere sulla crescita media del Pil come merito del suo Governo, senza guardare l’articolazione sociale e territoriale degli indicatori Bes, significa che non ha introiettato (o non vuole farlo) il crescere delle diseguaglianze che è il difetto centrale di questo modello di sviluppo).
Se manca un’“identità programmatica di sinistra” che faccia sintesi dei bisogni sociali e delle risposte da dare loro, è difficile immaginare che basti un nuovo nome o un nuovo simbolo (o una nuova alleanza elettorale) per colmare il vuoto. Ma quale programma? Per quali politiche? Qui un paradosso epocale, perché sembra che non se ne sia accorto nessuno: un “manifesto”, completo di sinistra (globale e locale) a 360 gradi è l’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile nata e sottoscritta da 190 Paesi del mondo nel 2015. Un altro manifesto di sinistra è la cosiddetta “Economia di Francesco” che unisce in maniera indissolubile società e ambiente, il mondo e le sue creature, a partire dall’enciclica “Laudato si’” (anch’essa del 2015). Non sono ideologie, sono piattaforme generali e dettagliate che continuano a essere enunciate ma non praticate, rievocate e subito rimosse dalle scelte di tutti i giorni, dai giornali, dai social e dalle politiche anche di sinistra. Da qui è indispensabile ripartire per mettere in rete le tante energie sociali esistenti.
Questo percorso non può che essere partecipato e inclusivo. Difficile pensare a una improvvisa “riconversione” dall’alto delle aule parlamentari (malgrado gli indirizzi espressi dall’UE). Le politiche della sostenibilità implicano “contrasti” e “conflitti” tra interessi e soggetti sociali diversi, come dicono gli autori del libro, e vanno attuate con percorsi “vertenziali” multilivello (dal locale al regionale al nazionale e viceversa, se la politica si sveglia). Non possono limitarsi alla richiesta di nuove leggi.
In estrema sintesi: per tornare a conquistare il consenso di chi non vota più a sinistra bisogna conoscere direttamente (di persona) i suoi bisogni e rispondere a quei bisogni con servizi di prossimità, altrimenti sono chiacchiere.
Gaetano Sateriale