I banchetti di libri usati sono una miniera. Scava scava, qualche testo interessante spunta sempre fuori. E, per una sorta di congiuntura astrale, talvolta il volumetto che balza agli occhi e viene subito afferrato con stupore e avidità, quasi temendo che possa scomparire, è ciò che, magari inconsciamente, stiamo cercando. Una risposta ai nostri rovelli. Come se una mano misteriosa l’avesse collocato lì, poco prima del nostro arrivo, una piccola traccia sul sentiero della comprensione. Ed ecco, proprio nei giorni dello scandalo delle Procure, spunta un titolo noto ma dimenticato: Corruzione nel Palazzo di Giustizia. Tre atti, che si svolgono sempre nella stessa stanza. “Chi è stato a stabilire che una cosa è giusta e l’altra no?”, grida uno dei protagonisti.
L’autore, Ugo Betti, fu nel contempo magistrato e drammaturgo. E usò l’arte teatrale per mettere in scena le contraddizioni esistenziali del suo mondo. La verità succube dell’interesse. Ha commentato un convinto esegeta: “Ma chi sono questi uomini? Sono forse esseri superiori e migliori di quelli che devono giudicare? Sono forse più buoni, più retti, più sinceri? E sanno essi che cos’è veramente il bene e che cos’è veramente il male? E perciò ha un qualche valore, uno soltanto, la loro giustizia? Inquisitore implacabile, lo scrittore va al fondo della questione, sonda, trivella, giù, giù, e giudica i giudici e la loro giustizia, li demolisce, perché è venuto ormai il tempo di riedificare: i giudici sono come gli altri uomini e nulla vale la loro giustizia, anch’essi sono pieni di colpe e desiderano confessarsi per poterle scontare”.
Cos’altro si può aggiungere? Siamo alla caduta degli dei. L’indagine sul mercimonio delle cariche, al di là delle singole responsabilità ancora tutte da accertare, evidenzia un sistema di inaccettabili relazioni che appare come la lebbra della corruzione descritta da Betti nella sua tragedia. Sono in ballo la credibilità dello stesso organo di autogoverno, il Csm, e del sindacato, l’Anm. Le correnti, da occasione di dibattito, sono degenerate in cordate per raggiungere onori e prebende. E, come sempre succede nel nostro infantile Paese, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca, anzi solo il bambino, confondendo l’uno con l’altra. Matteo Salvini ha attaccato frontalmente quei magistrati che hanno osato dare ascolto alle buone ragioni di immigrati e rom o rifiutano l’automatismo della legittima difesa. Fanno politica, accusa il vicepremier. Eppure interpretare le leggi tenendo conto del contesto sociale nel quale andrebbero applicate, è il contrario, vuol dire arginare la prepotenza del potere.
Un antifascista portato davanti al Tribunale Speciale ricordava che un membro della corte amava ripetere che sotto la toga portava sempre la camicia nera. A questo si vuole tornare? Alla totale acquiescenza nei confronti di chi comanda? Oppure, al contrario, qualcuno pensa che possa esistere una via giudiziaria al socialismo? No, il punto non è quello delle idee e delle opinioni, che sono anzi il motore del diritto. Il vero male dei giudici è ritenersi al di sopra di tutti, ammantati da un’aura d’infallibilità, persino con punte di presuntuoso disprezzo nei confronti degli avvocati, nella convinzione che la pubblica accusa possa svolgere anche il ruolo della difesa. E poi l’ansia di carriera, la spartizione dei posti, la voglia di protagonismo, la vanità, la furbizia, l’invidia, le antipatie, l’ipocrisia.
Il testo di Betti ci ricorda che all’ inflessibilità del Rigorista e all’opportunismo del Politicante, i due estremismi della magistratura, va opposta l’umana comprensione. In un bel film del 1962, Il giardino di gesso, Deborah Kerr, interpretando un’istitutrice brava e appassionata ma gravata da un oscuro passato (si scoprirà che era stata in prigione), lamenta desolata che nell’aula di un tribunale quello che si sente dire dell’accusato “non è la sua vita, è il profilo, l’ombra”. La vera sorella della Giustizia è la Pietà.
Marco Cianca