Cesare Damiano
Quando si mette mano a un impianto negoziale complesso, come quello sancito nel protocollo del 23 luglio ’93, bisognerebbe prima di tutto verificare se esiste una consonanza di obiettivi alla base di quest’opera di manutenzione. E la durezza dello scontro che si è aperto negli ultimi mesi, e che ha portato fra l’altro allo stallo di numerosi contratti, ce lo fa dubitare. È difficile dunque sottrarre la discussione sull’architettura contrattuale dall’incrocio con il tema su cui si è soprattutto accesso il dibattito: quello della flessibilità.
Ribadisco per inciso che la CGIL ha favorito l’introduzione nel sistema contrattuale italiano di tutti quegli strumenti che hanno reso l’organizzazione del lavoro più elastica rispetto agli impulsi di mercato: dalla calendarizzazione annua degli orari, al rapporto di lavoro interinale, all’allargamento del part time anche verticale, ai contratti stagionali, per non parlare dei processi di terziarizzazione e di delocalizzazione. Quello su cui non concordiamo è la finalizzazione della flessibilità all’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e, in definitiva, della stessa contrattazione collettiva: a cominciare dalla libertà di licenziamento e dall’estensione al di là della direttiva europea del ricorso ai contratti a termine.
Lungo questa linea di ragionamento, la CGIL non è disponibile oggi a rimettere in discussione i due livelli di contrattazione: quello nazionale, cui compete la definizione di una piattaforma minima di diritti universali e un zoccolo salariale di categoria; e quello articolato, per la distribuzione dei benefici della crescita di produttività e per il confronto sull’organizzazione del lavoro. All’interno di questo impianto, anche noi spingiamo per introdurre elementi di riforma nella struttura contrattuale del 23 luglio, a partire da un’operazione di semplificazione dei contratti nazionali di categoria, che potrebbero essere tendenzialmente riferiti ai grandi aggregati dell’industria, dei servizi e del pubblico impiego.
A livello decentrato, è senza dubbio utile rafforzare momenti di contrattazione territoriale da affiancare (in termini alternativi, naturalmente) alla classica contrattazione aziendale.
Del resto nel Veneto, caratterizzato come si sa da un forte sistema di impresa diffusa, abbiamo già da tempo sperimentato forme di contratti territoriali: a parte quelli regionali del comparto artigiano e gli integrativi provinciali dell’agricoltura (che appartengono a storie negoziali diverse), ricordo quello regionale della concia (che in realtà si riferisce al comprensorio di Arzignano) e quelli territoriali del vetro artistico di Murano, della ceramica di Bassano e del distretto calzaturiero della Riviera del Brenta.
Soprattutto quest’ultimo – che è stato nelle scorse settimane rinnovato per la terza volta – rappresenta un importante strumento di unificazione fra piccole e grandi aziende del distretto, coinvolgendo anche le parecchie centinaia di lavoranti a domicilio: se ne è confermato il ruolo importante di omogeneizzazione e tenuta del comparto, contribuendo anche a incentivare innovazione, qualità, percorsi formativi.
Sono certamente esperienze da consolidare ed estendere. Quanto al livello territoriale cui fare riferimento, io non credo che esso possa essere stabilito centralmente una volta per tutte; anzi, ad essere franco, mi insospettisce questa accentuazione sulla dimensione regionale, che mi pare in assonanza col federalismo imperfetto di quelle forze che pensano di sostituire il potere di Roma con quello dei capoluoghi di regione, contrastando l’ulteriore decentramento di competenze e poteri.
Per quanto riguarda i settori dell’industria, credo proprio che la dimensione più efficace di un contratto territoriale sia quella del distretto, dove si realizzano le maggiori omogeneità e dove si possono con più precisione fissare gli obiettivi.