Bruno Ugolini
Sarà il futuro ministro del Lavoro, dopo le elezioni politiche a dirimere la diatriba sui contratti a termine? Il quesito è sorto tra molti osservatori dopo l’ennesima impasse in cui è stata posta la vicenda, con la Cgil da una parte, dall’altra la Confindustria, nonché Cisl e Uil e 16 organizzazioni imprenditoriali. In mezzo l’attuale ministro del Lavoro, Cesare Salvi. Il problema è che anche per un Governo di centrodestra la soluzione del problema rappresenterebbe una patata bollente di difficile soluzione, giacché le elezioni sono il 13 maggio e a luglio (data di scadenza per una possibile soluzione) ci sarà il G8 a Genova. Troppo poco il tempo a disposizione, a meno di non ottenere una proroga dall’Unione europea.
Cerchiamo, intanto, di ricostruire le alterne vicende di queste nuove forme contrattuali. Non si può non partire dalle attuali cifre. Come ha scritto il Corriere della Sera, “Nel 2000 risultavano impiegate con contratto a termine 1.523.000 persone, pari al 7,3% dei quasi 21 milioni di lavoratori italiani. Nel ’93 erano solo il 4,3% del totale. In questo milione e mezzo sono però compresi 430 mila contratti d’apprendistato e 370 mila contratti di formazione lavoro, in tutto 800 mila. I contratti a termine in senso stretto sono quindi circa 700 mila”. Secondo l’Isfol-Istat già oggi, comunque, più della metà delle assunzioni avviene a tempo determinato, anche se il 38% dei lavoratori a termine ottiene alla fine un’assunzione permanente. L’addio al posto fisso, insomma, è già stato dato.
Eppure ci sono regole da rivedere, ammodernare, anche per corrispondere alla direttiva europea in materia. E qui c’è stato l’intoppo. Le norme attuali sul lavoro a termine hanno questi riferimenti giuridici: legge 18 aprile 1962, n. 230; d.l. 3 dicembre 1977, n. 876, convertito in legge 3 febbraio 1978, n. 18; art. 23, legge 28 febbraio 1987, n. 56. Una norma del 1997 ha esteso i contratti a termine al settore turismo in caso d’incremento stagionale d’attività. La legge 79/1983 ha esteso ancora questa possibilità ad altri settori. L’atto 56/1987 ha permesso ai contratti collettivi di includere nuovi tipi di contratto a termine, in aggiunta a quelli già consentiti dalla precedente legislazione. La quota massima di contratti a termine per ciascuna azienda può essere altresì introdotta dai contratti collettivi nel settore pubblico. Sono stati così emanati provvedimenti, onde permettere l’assunzione di lavoratori a tempo determinato per tre mesi, per ragioni particolari, ad esempio nelle poste. La legge 863/1984 ha poi introdotto i contratti di formazione e lavoro che sono, in sostanza, altre forme di contratto a termine.
La caratteristica di fondo di questa legislazione è data dal fatto che prevede come normale il rapporto a tempo indeterminato, consentendo un termine al rapporto di lavoro in ipotesi determinate. Il termine di scadenza del contratto può essere prorogato una volta sola e per un periodo non superiore alla durata iniziale. Inoltre il rapporto si trasforma in rapporto a tempo indeterminato, se prosegue dopo la scadenza per un dato numero di giorni. Altre modifiche erano intervenute, durante il Governo Prodi, col patto per il lavoro del settembre ’96. Il passaggio da contratto a tempo determinato ad indeterminato era ammesso solo nei casi d’evidente violazione della legge, altrimenti era prevista una sanzione amministrativa. Un tentativo di cancellare tale normativa, con tutti i limiti spesso denunciati dalla Confindustria, era venuto con i referendum radicali. Uno di questi, poi non accettato dalla Corte Costituzionale, proponeva l’abrogazione dell’intera normativa.
E arriviamo così al 18 marzo 1999, alla direttiva dell’Unione Europa. I sindacati della Ces (dove sono presenti anche Cgil, Cisl, Uil) e gli imprenditori (Unice-Ceep), varano un’ipotesi d’accordo quadro sui contratti a tempo determinato. La proposta prevede, però, una dinamica d’attuazione a livello nazionale e di settore, mettendo in evidenza la necessità di consultazione dei partner sociali al momento dell’attuazione della direttiva nei singoli Stati membri. Ed ecco che, dopo la direttiva europea, il 12 gennaio 2001, in Italia, obbedendo appunto, alla necessità di una traduzione nazionale, è stipulata un’intesa di massima. Sono concordi, in questa prima fase, sia i sindacai, sia Confindustria, Confcommercio, organizzazioni degli artigiani e cooperative, Abi, eccetera. L’accordo, tutto da riempire nel dettaglio, deve essere presentato come “avviso comune” al ministro del Lavoro che, tenuto conto dell’orientamento tra le parti, dovrà poi emanare i provvedimenti legislativi necessari. Lo stesso ministro però non fissa una data ultimativa – e forse sarebbe stato meglio farlo, osserva qualcuno – per la conclusione del negoziato.
Gli incontri, dopo il 12 gennaio, si susseguono e portano ad una prima rottura: la Cgil, il 5 febbraio scorso, pone un problema che poi farà riemergere a più riprese. Le nuove regole sui contratti a termine, dice il sindacato di Cofferati, debbono sempre vedere un ruolo della contrattazione collettiva. Fra le questioni irrisolte della trattativa c’è quella della specificazione delle causali, ovverosia dei motivi per i quali l’imprenditore intende ricorrere ai contratti a termine e la “fissazione dei contingenti massimi d’utilizzo”, cioè quanti contratti a termine si possono stipulare sul totale dei contratti a tempo indeterminato. C’è da ricordare che tra i sindacati, fin dall’inizio della trattativa, sono apparse differenze perlomeno di toni, ma anche inerenti ai contenuti, con Cisl e Uil più disponibili ad una mediazione sui diversi punti e una Cgil più rigida. E’ del resto noto come su un aspetto di fondo – il ruolo del contratto nazionale – sono emerse a più riprese negli ultimi tempi opinioni non identiche fra le tre organizzazioni.
La Confindustria, con il suo presidente Antonio d’Amato, reagisce al blocco del negoziato con durezza, proponendo d’intraprendere la strada dell’accordo “con chi ci sta”. Una posizione che viene in seguito temperata. Tanto che la stessa Confindustria propone un’apertura su due punti: il tempo di durata dei contratti (una sola proroga per ciascun dipendente, nell’ambito di un tetto di tre anni) e i limiti quantitativi per l’utilizzazione dei contratti a termine (i cosiddetti tetti). E’ previsto anche un comma aggiuntivo relativo al ruolo della contrattazione nazionale. Niente da fare invece sulle motivazioni per giustificare l’adozione dei nuovi tipi di contratti.
Il 5 marzo nuovo incontro, con una Cisl che alla vigilia appare abbastanza soddisfatta (pur volendo anche per le motivazioni “un ancoraggio più deciso alla contrattazione”), la Uil più cauta (il segretario Carlo Fabio Canapa sostiene, ad esempio, che non si può azzerare quanto già definito con i contratti nazionali) e la Cgil che non considera sufficienti i passi avanti compiuti. Ad ogni modo, secondo tutte e tre le organizzazioni, la nuova normativa sul contratto a tempo determinato dovrà rinviare alla contrattazione collettiva la definizione dei tetti d’utilizzo del contratto e i contingenti. Le imprese rispondono affermando che la normativa può rinviare ai contratti la definizione dei contingenti tranne una serie di casi. Le esclusioni sono cinque: i casi di sostituzione di personale, le aziende in start up, i picchi produttivi, la stagionalità, i contratti inferiori a 12 mesi.
Tutte queste premesse portano, alle 21 del 5 marzo, dopo quattro ore di trattativa, al colpo di scena: la Cgil dichiara che “non ci sono ragioni per proseguire il confronto”. I colloqui vanno avanti senza il sindacato di Cofferati. Anzi, Cisl, Uil e Confindustria decidono di redigere una lettera da inviare al ministro Salvi in cui forniscono suggerimenti per arrivare ad una soluzione positiva. “Spieghiamo – racconta il segretario confederale Cisl Raffaele Bonanni – che le condizioni per proseguire il negoziato ci sono. Per noi la trattativa continua. Del resto abbiamo già raggiunto l’accordo su questioni rilevanti. Rimane un unico punto, quello del rinvio alla contrattazione per quanto riguarda le pecentuali massime. Per il resto, è ormai tutto chiarito, e pensiamo di aver raggiunto un accordo abbastanza soddisfacente”. Anche la Cgil, però, vuole interpellare il ministro e il segretario confederale Giuseppe Casadio dichiara: “Segnaleremo come il mancato accoglimento della proposta da noi avanzata configuri soluzioni in contrasto con alcuni principi alla base della direttiva comunitaria”. Questo è il punto principale per la Cgil, come precisa lo stesso Cofferati: “La proposta che la Confindustria continua ad avanzare è lesiva della direttiva comunitaria. Questa raccomanda il partenariato sociale, mentre la Confindustria propone un accordo nel quale il sindacato rinunci a contrattare. Quello che chiede Confindustria sui contratti a termine è il suicidio del sindacato”.
Come uscirne? La direttiva europea che impone al Governo di regolamentare i contratti a termine pone come scadenza il 31 luglio del 2001. La stessa direttiva, però, aggiunge che “in presenza di una trattativa tra le parti sociali, il termine si può prorogare di un anno”. E quindi tutto potrebbe essere rinviato al nuovo Governo. Sarà così? O Cesare Salvi avanzerà una sua proposta, magari sotto forma di decreto? C’è già chi mette le mani avanti, come il segretario generale della Cisl, Savino Pezzotta: “Sarebbe un vulnus per l’autonomia delle parti; in tale caso agiremo di conseguenza”. Né Cisl né Uil pensano che l’accordo con gli imprenditori sia a portato di mano, sanno che esistono, come hanno spiegato, ancora seri punti di dissenso, ma non condividono lo “strappo” della Cgil. Chi tenta di riportare la discussione nel merito dei problemi è Guglielmo Epifani, il vice di Cofferati, anche in garbata polemica col ministro delle Finanze, Ottaviano Del Turco, suo antico compagno di sindacato e di partito, molto critico nei confronti della Cgil. Epifani così spiega quello che a suo parere è l’imbroglio della Confindustria: essa vorrebbe non considerare, nell’indicazione dei tetti massimi di contratti a termine, i contratti con durata inferiore a dodici mesi; ma poiché in Italia; il 98% dei contratti a termine dura meno di 12 mesi, questo vorrebbe dire non regolamentare alcunché. Il vice di Cofferati aggiunge poi, in una intervista a La Stampa, una affermazione significativa: “Se il ministro ci convoca, andremo: nell’Abc del sindacalista c’è scritto che i tavoli si tengono fino all’estremo”. Una verità indiscutibile che sembra però entrare in contraddizione con quanto è avvenuto. Comunque, anche se la decisione del ministro è ancora ufficialmente in sospeso e se dopo la rottura della Cgil c’è stato un incontro fra Salvi e le organizzazioni “che ci stanno”, l’orientamento prevalente appare quello del rinvio al nuovo Governo.
Resta da annotare il fatto che un altro sindacato (di destra l’Ugl) è intento a tirare la giacchetta al ministro del Lavoro dichiarando: “Non può limitarsi al semplice ruolo di passacarte tra la Comunità europea e le parti sociali, ma deve intervenire nella vicenda dei contratti a termine”. Assai diverso il commento di Giuseppe Carbone, numero uno della Cisal, il sindacato vicino a Forza Italia: “Prima di assumere decisioni e procedere d’autorità Salvi dovrà riflettere molto e stare attento a quello che fa, perché potrebbe rischiare di compromettere definitivamente il metodo concertativo”.
Non si può negare, qualsiasi possa essere lo sbocco della vicenda, che su di essa pesino gli effetti d’una campagna elettorale dai toni prorompenti. Non a caso, ci sembra, come ha ricordato in un editoriale sul “Sole 24 ore” Aldo Carboni (“Cofferati e la bomba”), entrambe le parti principali in gioco si lanciano pesanti e opposte accuse. Cofferati, scrive il giornalista, attribuisce “a supposte propensioni politiche della Confindustria le scelte fatte dagli imprenditori”. La Confindustria dipinge Cofferati “come l’uomo nero di tutta la conservazione italiana”. Stando così le cose, tutto sembra correre verso le urne. A meno che il ministro del Lavoro attuale riesca in un’operazione miracolosa, quella di produrre una mediazione capace di soddisfare le esigenze di Cgil, Cisl e Uil e quelle imprenditoriali. Quasi come un goal segnato allo scoccare nel novantesimo minuto.