Direzione Relazioni Industriali gruppo FS
Il dibattito sulla struttura della contrattazione collettiva non accenna a sopirsi ed, anzi, si arricchisce di nuovi contributi. La questione non è accademica: sono in discussione gli assetti stabiliti dal protocollo 23 luglio 1993, sorta di ‘carta costituzionale’ delle relazioni industriali.
Un’opinione che trova proseliti sia tra gli osservatori del fenomeno sindacale sia tra gli ‘addetti ai lavori’, anche di diversa estrazione, pone in dubbio l’attualità del protocollo. Pur riconoscendo il valore dell’accordo triangolare quale positivo frutto della concertazione che ha consentito un funzionale governo della politica dei redditi, questa linea di pensiero ritiene che il sistema pattizio, imperniato sul contratto nazionale di settore, non sia più al passo con i tempi. Le argomentazioni in questo senso sono note. Esse evidenziano il processo di erosione del ruolo dello Stato nazionale, dovuto, da un lato, alla globalizzazione e all’accrescersi dei poteri dell’Unione europea; dall’altro, alla progressiva ‘devoluzione’ di competenze dal centro alla periferia (in particolare, alle regioni).
In questo contesto, la contrattazione incentrata sul livello nazionale appare anacronistica: per un verso, perché l’interrelazione dei mercati rende obsoleto il meccanismo di difesa del potere d’acquisto dei salari correlato al tasso d’inflazione nazionale; per l’altro, in quanto le diverse realtà socio-economiche regionali reclamano condizioni di trattamento dei rapporti di lavoro differenziate a adattabili alle locali specificità. La tendenza al decentramento, in quanto sembra configurare un fenomeno non transeunte ma destinato a consolidarsi, giustificherebbe e renderebbe necessario – secondo l’opinione in parola – un corrispondente spostamento del baricentro della contrattazione collettiva.
All’interno di questa corrente di pensiero, vi sono posizioni ancora più radicali, che giudicano insufficiente un intervento riformatore limitato al sistema dei livelli di contrattazione. Tale orientamento arriva a sostenere la necessità di una riforma che modifichi il rapporto gerarchico tra contratto collettivo e contratto individuale, assegnando a quest’ultimo la facoltà di derogare anche in peius la disciplina collettiva. Si tratta di un indirizzo che apertamente si prefigge la radicale modifica dei principi fondamentali del vigente diritto del lavoro. Ma tale obiettivo – a prescindere dalla sua opinabilità – non sembra realizzabile in tempi brevi, perfino in un’epoca – come l’attuale – caratterizzata da rapide ed incessanti trasformazioni.
Soffermandoci qui solo sugli aspetti concernenti la struttura della contrattazione collettiva, le tesi di chi auspica il superamento del sistema delineato dal protocollo del ’93 – pur apprezzabili per l’intento di adeguare le regole ad una realtà che muta – suscitano alcune perplessità con particolare riferimento alle grandi reti di imprese che erogano servizi di pubblica utilità.
Le tesi in parola appaiono viziate da un atavico difetto di percezione: esse continuano a prendere a modello la fabbrica tradizionale, malgrado questa rappresenti una tipologia sempre meno paradigmatica, mentre trascurano la grande azienda diffusa su tutto il territorio, seppur integrata.
E’ evidente che il problema dei livelli di confronto negoziale assume una diversa connotazione a seconda che lo si riferisca all’unità produttiva tradizionale dell’industria manifatturiera od, invece, a realtà produttive più articolate e complesse. Nella seconda ipotesi, il decentramento è senz’altro condivisibile qualora sia volto ad una più adeguata regolamentazione degli specifici interessi in coerenza con il principio di sussidiarietà, attribuendo maggiori competenze al livello di gruppo. Ma tale decentramento non può spingersi fino a ‘regionalizzare’ la contrattazione, perché ciò, oltre ad appesantire il sistema complessivo con ulteriori sedi di confronto, introdurrebbe una elevata disomogeneità di trattamento all’interno della stessa realtà, rendendo estremamente ardua la gestione dei rapporti.
Nella prospettiva di un opportuno aggiornamento del protocollo, una disciplina dei livelli di contrattazione avente necessariamente carattere di generalità e di adattabilità alle differenti situazioni dovrebbe in primo luogo basarsi sulla conferma del principio di non sovrapposizione e non ripetizione delle materie ai vari livelli. Essa dovrebbe, inoltre, prevedere uno snellimento del contratto collettivo nazionale, la cui attuale natura di regolamentazione compiuta e onnicomprensiva rischia di costituire un elemento di rigidità.
Il secondo livello, cui conseguentemente dovrebbe essere riconosciuta una maggiore libertà di manovra, troverebbe attuazione al livello di gruppo o, in alternativa, di azienda/territorio, in rapporto alle specifiche configurazioni aziendali. Questa soluzione appare sufficientemente flessibile ed idonea a conciliare le diverse esigenze.