Luigi Copiello
La discussione sulla riforma della contrattazione si esercita con gran fantasia quanto a livelli, tempi e soggetti. Trascura del tutto o lascia sullo sfondo il tema dello sviluppo professionale. Tema peraltro, ma in altra sede, considerato fondamentale quanto critico, perché la risorsa professionale è più scarsa e meno mobile rispetto ad altre (capitali e tecnologie). Lo testimoniano i dati sui mercati del lavoro, tutti in affanno, sia dove la piena occupazione c’è (lì manca un po’ di tutto: il generico, il qualificato, lo specialista), sia dove non c’è (non bastano le sole braccia, anche lì servono competenze, quelle giuste).
Aggiungiamo che è comune sentire che il nostro Paese è del tutto carente in questo campo. Ogni confronto internazionale ci vede perdenti, rispetto a quanto è dispiegato dallo Stato (Francia) o dallo Stato associato alle parti (Germania, Nord Europa). In ogni caso: formazione professionale, orientamento professionale, certificazione professionale, tutto è affidato al caso. Manca lo Stato; i contratti sono deboli o sbagliati (vedi scuola, vedi metalmeccanici); è venuta meno la capacità regolatrice della grande azienda, che spesso occupava lo spazio lasciato vuoto da leggi e contratti.
Se poi si scegliesse questo tema, le esperienze dimostrano come esso sia strettamente collegato ai mercati del lavoro locali. Regole nazionali o aziendali contano poco, sempre meno, rispetto alle condizioni dei mercati locali. Sono queste a stabilire formazione e regolazione delle professionalità lì presenti. Ma raramente per via ufficiale (contratti di emersione, contratti territoriali); più normalmente per via informale (superminimi e normative ad hoc). C’è una costituzione materiale, diversa da quella formale.
Una riforma della contrattazione dovrebbe quindi assumere come centrale il tema dello sviluppo professionale nella sua dimensione territoriale. Al livello nazionale potrebbe essere affidato il compito di stabilire le grandi famiglie professionali (ad es.: ingresso e qualificazione, specializzazione, gestione), le relative norme generali, i relativi minimi (capaci di ‘assorbire’ le deroghe oggi distribuite in una varietà di istituti e leggi) e le modalità di analisi e valutazione dei profili professionali.
I quali sarebbero stabiliti a livello territoriale, con la definizione delle competenze richieste ed espresse, del saper fare e del fare, e la relativa fascia di salario per ciascun profilo. Si propone una fascia salariale, per dare conto di tutto quanto concorre a definire la professionalità e per usare strumenti diversi (ad es.: sviluppo legato all’esperienza oppure alla formazione).
Un esempio: il saldatore può appartenere alle due famiglie della qualificazione e della specializzazione. Ha quindi come riferimento due minimi nazionali, ad es. 100 e 150. Spetta in ogni modo al livello territoriale la definizione dei due specifici profili, diversi per competenze richieste ed espresse. Queste, assieme alle condizioni del mercato locale, concorrono a stabilire un accordo territoriale per cui il primo profilo ha una fascia 100-150 ed il secondo 170-220. In altro territorio le fasce sarebbero 100-140 e 150-220, riflettendo una maggiore debolezza sul mercato del lavoro locale delle competenze meno sviluppate. L’aumento nazionale agirebbe solo sui minimi delle famiglie e quindi sui soli 100 e 150. La retribuzione reale del singolo saldatore sarebbe la risultante del suo sapere (meglio se certificato da un ente bilaterale che interviene anche sull’orientamento e sulla formazione) e del suo fare (risultante dagli obiettivi raggiunti in azienda). Gli avanzamenti nella professione potrebbero avvenire o per esperienza (scatti) o per crescita, alternativamente ed in opzione a ciascun lavoratore.
Pro e contro la proposta. A favore: c’è un governo esplicito di quanto oggi è lasciato senza governo: lo sviluppo professionale. C’è una elasticità forte del sistema, con il rinvio ai mercati del lavoro locali. In questo senso, potrebbe estendere e generalizzare i consensi che già oggi le parti esprimono per modelli simili (vedi contratto braccianti, vedi contratto edili, vedi contratti territoriali).
Lo stesso scontro relativo ai temi inflazione e produttività sarebbe relativizzato. Gli impatti di una eventuale somma di inflazione e produttività media sarebbero molto ‘diluiti’, in quanto riferiti ai minimi delle famiglie e non ai ‘gradini’ dei diversi profili. Il sistema sarebbe inoltre equo: il livello nazionale sarebbe importante soprattutto dove contano i minimi, quello territoriale dove le condizioni sono migliori.
Contro: quanto più ampia e ricca (anche con riferimento ai parametri indicati) è la fascia salariale dei diversi profili, tanto meno è necessaria una contrattazione aziendale ‘aggiuntiva’. In sede aziendale si realizzerebbe l’implementazione, la gestione, di quanto stabilito a livello territoriale. Ivi compresi quei parametri che farebbero riferimento al fare e quindi ai risultati delle competenze (qualità, tempestività, etc.), oggi appannaggio dei premi di risultato. E’ chiaro inoltre che questa parte della fascia (relativa al fare) sarebbe variabile.
Al livello aziendale, piuttosto, andrebbe riferito il solo titolo della redditività, meglio se collegato esplicitamente a forme di partecipazione.
E’ chiaro che si aprirebbe un bel problema di rappresentanza, un po’ per tutti. Sindacati dei lavoratori e imprese dovrebbero avere una capacità di darsi e dare forma a rappresentanze professionali, di mestiere, che oggi sono schiacciate sulla categoria o sull’ impresa.