I contenuti delle relazioni industriali stanno cambiando in maniera sostanziale. Se prima l’attenzione era concentrata su occupazione e retribuzione, oggi si guarda con crescente attenzione a come ripensare il tempo di lavoro.
Il diario del lavoro ha organizzato un seminario di studi al Cnel per analizzare il problema della gestione dell’orario di lavoro, al momento oggetto di diverse sperimentazioni. Gli studi svolti su queste esperienze hanno portato alla luce la possibilità di rispondere per questa via a esigenze di maggiore benessere da parte delle persone impiegate e allo stesso tempo aiutare il processo di crescita della produttività aziendale. Si è arrivati così a riduzioni sensibili dell’impegno lavorativo, che si è pensato in diverse occasioni di concentrare anche in soli quattro giorni la settimana, mantenendo invariata la retribuzione. Un’innovazione profonda, che ha aperto la porta a diversi utilizzi del tempo liberato, che può essere speso per migliorare il rapporto tra lavoro e vita, ma anche per una crescita professionale. Le relazioni industriali sono fortemente impegnate in questa sperimentazione e per questo è stata avvertita la necessità di una approfondita discussione tra un accreditato gruppo di esperti.
In apertura dei lavori Tiziano Treu afferma come il tema della riduzione dell’orario di lavoro sia stato collegato, in origine, al vecchio motto “lavorare meno per lavorare tutti”. Ora, spiega Treu, questo in sostanza non si è avverato, perché non c’è stato un allargamento significativo dell’occupazione e non c’è stata una vera riduzione dell’orario, ma, semmai, la remunerazione, attraverso gli straordinari, delle ore in eccesso. L’input a una riduzione dell’orario e a una nuova organizzazione del lavoro non proviene oggi dalla dimensione legislativa, ma, principalmente, dalla contrattazione aziendale e, in alcuni casi, dai contratti nazionali. La questione della diminuzione del tempo di lavoro, prosegue Treu, oggi si aggancia non solo alle altre esperienze maturate in questi mesi, come il lavoro a distanza e la flessibilità, ma anche con la ricerca di una maggiore produttività e un accrescimento della qualità del lavoro, mettendo al centro i bisogni della persona. Nella dimensione del wellness che le aziende più grandi stanno ricercando a più livelli, l’offerta di un orario di lavoro cucito a misura sulle necessità del singolo lavoratore sta diventando un aspetto imprescindibile. Nel welfare aziendale si parla sempre di più di time saving, ossia dell’offerta di servizi che possano far risparmiare tempo al lavoratore, senza dimenticare i premi di risultato pagati in tempo.
Patrizia Ordasso, responsabile delle relazioni industriali di Intesa San Paolo, sostiene come il principale gruppo bancario italiano abbia sperimentato nuove soluzioni per la rimodulazione dell’orario di lavoro prima dell’introduzione della legge sul lavoro agile e prima che fosse presente nel contratto collettivo. Già nel 2015 nelle strutture centrali lo smart working è realtà. Con la pandemia, il gruppo, spiega Ordasso, si è dimostrato già pronto. Per quanto riguarda le filiali, sempre nel 2015, si è puntato sulla formazione, poi nel 2017 si è fatto strada il contratto misto, ossia un mix di subordinazione e autonomia in capo allo stesso addetto. È cresciuta, ha proseguito Ordasso, la richiesta di una maggiore flessibilità, all’inizio soprattutto per una questione di conciliazione. La pandemia ha accelerato tutto questo processo, che era già in moto. Con il Next Way Working il gruppo ha iniziato a pensare a come evolvere la flessibilità, per non pensarla esclusivamente come strumento di conciliazione. Sono stati rivisti gli elementi di collaborazione, gli spazi e si è dovuto operare un cambio culturale e di approccio nel management, che si è trovato a governare nuove dinamiche organizzative. È stata rafforzato, sia quantitativamente che qualitativamente, il lavoro da remoto cercando di trovare un giusto equilibrio con quello in presenza. Un’altra opzione messa sul campo è stata la settimana corta, lasciando al lavoratore la possibilità di gestirla. Tutto questo è stato contrattato con i sindacati, anche se c’è stata un po’ di chiusura, soprattutto sul versante delle filiali. È chiaro che la flessibilità delle filiali ha dei limiti, rispetto alle sedi centrali. Il sindacato ha voluto accentuare questa dicotomia, quando ovviamente questa non era la volontà di Intesa.
Gaetano Giannella, Head of Trade Union Relations in Leonardo, definisce l’esperienza del suo gruppo più classica. Leonardo è formato da tante realtà diverse e, sino a ora, le soluzioni di flessibilità sperimentate al suo interno hanno principalmente riguardato l’orario di ingresso e di uscita. A questa base si è aggiunta l’esperienza dello smart working, in modo sperimentale. Il covid ha poi dato una forte spinta a questa modalità. Il lavoro agile si è poi rafforzato attraverso una serie di accordi. C’è una cornice di riferimento, che stabilisce un numero massimo di giornate da remoto. Si tratta, prosegue Giannella, di una sperimentazione ormai consolidata. Leonardo si trova alla vigilia del rinnovo del contratto integrativo, dove si affacciano temi come la settimana corta o la conversione del premio di risultato in tempo. C’è disponibilità a discutere nuove forme di flessibilità, ma facendo i conti con la realtà di Leonardo. Bisogna, da un lato, guardare alla produttività del gruppo, dall’altro, vanno evitate nuove forme di discriminazione tra lavoratori remotizzabili e non remotizzabili. Guardando a nuovi modelli di organizzativi, serve un cambio di mentalità nel management, così come gli addetti devono iniziare a pensare per obiettivi.
Secondo Roberto Benaglia, segretario generale della Fim-Cisl, il mondo del lavoro si trova davanti a grandi trasformazioni. Uno degli obiettivi per sindacato e imprese è quello di avere lavoratori con un grado di benessere individuale molto elevato. C’è, dice Benaglia, oltre al salario, una grande richiesta di tempo. Occorre agganciare il tema della produttività a quello della sostenibilità. Ci sono molti metalmeccanici che stanno abbandonando il settore non alla ricerca di un salario maggiore, ma per avere un’occupazione che gli consenta di avere percorsi di vita declinati sui propri bisogni, e non più standardizzati come nel Novecento. Tutto questo deve essere accompagnato non da una produzione legislativa ma dalla contrattazione. Una diversa organizzazione del tempo è un fattore di sostenibilità anche per i lavoratori più anzi, considerato l’impatto che la demografia sta avendo anche sul mercato del lavoro.
Per Ernesto Martinelli, Head of Global Industrial Relations, Welfare & Wellbeing in Enel, il rischio, dopo i mutamenti causati dalla pandemia, è quello di rifugiarsi in vecchi schemi del passato, senza pensare a come costruire nuovi modelli di lavoro. La frontiera, per imprese e lavoratori, è ormai quella del benessere, della responsabilizzazione, della flessibilità. Non si possono poi ignorare anche i fenomeni delle dimissioni e il quite quitting. Con il Global Wellbeing Program Enel ha voluto dare alle persone la possibilità di autoprofilare il proprio stato di benessere, e accedere così ad alcuni servizi. Chi dunque si prende cura di sé stesso, viene ricompensato dall’azienda con il tempo.
Lorenzo Federici, Head of Industrial Relations, Payroll, HR Policies in Snam, spiega come nel gruppo ci sia da tempo un certo grado di flessibilità. Il venerdì pomeriggio non è lavorativo. Lo smart working è presente dal 2014 e la pandemia lo ha consolidato. Oggi, continua Federici, non bisogna ricercare nuovi strumenti ma rendere realmente applicabili quelli già presenti. Nelle attività di recruitment una prerogativa che oggi le persone chiedono è la flessibilità, ossia la possibilità di gestire il proprio tempo con un grado di autonomia che fino a qualche tempo fa era impensabile. Grazie alla flessibilità, spiega Federici, è stato possibile portare a termine, in un frangente inferiore al necessario, il posizionamento del rigassificatore a Piombino. Lo scopo è quello di declinare la flessibilità all’interno della dimensione collettiva dell’azienda e non solo guardando alla sfera del singolo.
Gian Luca Orefice, Director Human Capital and Organisation in Autostrade, ritiene come ci sia una certa azione compatta da parte della grande azienda nell’attuare sperimentazioni e soluzioni in merito alla flessibilità e come ridurre gli elementi di inciampo. Oggi la richiesta di flessibilità ha una duplice faccia: collettiva, come fattore attrattivo da parte delle aziende e bisogno generale diffuso, ma anche individuale, per poter andare incontro alle esigenze di ognuno. Una richiesta di questo tipo proviene, soprattutto, dalle figure medio-alte, con il rischio potenziale di creare una dicotomia tra chi può permettersi una maggiore libertà di ingaggio e chi no. Il tempo non è solo uno strumento di conciliazione, ma anche di crescita personale, attraverso il long life learning, aspetto indispensabile per garantire la costante occupabilità delle risorse umane. Oggi bisogna introdurre elementi di liberazione del tempo, che possono avere degli effetti anche sulla sostenibilità nei territori, senza dimenticare di evitare effetti distorsivi, che creino disparità tra i lavoratori.
Emilio Miceli, segretario confederale della Cgil, riflette sul fatto che il cuore della contrattazione in Italia si è concentrato da tempo su come aumentare la produttività. Ma, continua Miceli, l’Italia è il paese nel quale si lavora di più e si guadagna di meno. Inoltre, noi siamo davanti a segnali di cedimento del lavoro subordinato, perché oggi il subordinato è visto come il regno dell’infelicità. Questa sensibilità le imprese devono codificarla perché, altrimenti, prenderanno il peggio e non il meglio da quello che può offrire il mercato del lavoro. Bisogna evitare di perdere le intelligenze che abbiamo a disposizione. La previsione di Miceli è che nei prossimi contratti ci sarà una maggiore attenzione alla remunerazione del lavoro, per combattere l’inflazione, piuttosto che immaginare nuovi modelli organizzativi. E questo potrà essere un segnale di ritardo per il nostro sistema.
Luigi Caronni, responsabile delle relazioni industriali di A2A, illustra come nel suo gruppo la contrattazione da tempo stia allargando il perimetro della flessibilità, con tutta una serie di strumenti, per andare sempre di più incontro ai bisogni dei singoli lavoratori. L’azienda è sempre stata disponibile a dare strumenti di conciliazione sempre con un occhio alla produttività. Per Caronni il vero punto non è tanto capire se si può calibrare l’orario dei colletti bianchi su quattro giorni, ma evitare nuove simmetrie con chi può ricorrere meno alla flessibilità. È importante, in questa fase, cercare di trovare una quadra comune a tutte le esperienze che ogni azienda ha sperimentato al suo interno, andando comunque incontro alle sensibilità di chi si affaccia ora sul mondo del lavoro, molto attento alla questione delle flessibilità. Ci sono poi due linee di riflessione che meritano attenzione. La prima è quella di liberare del tempo per metterlo al servizio dello sviluppo delle competenze personali. La seconda è, al livello aziendale, operare una progressiva riduzione dell’orario in diverse aree.
Per Michel Martone, professore di diritto del lavoro alla Sapienza di Roma, gli stravolgimenti della pandemia si sono abbattuti sul mondo del lavoro come un meteorite, spazzando via delle parole da tempo imperanti e un modello che, a dire il vero, già da un po’ stava dando segnali di cedimento. Il covid ci ha fatto riscoprire il tempo. Sul tempo si sono incentrare la maggior parte delle politiche del ‘900 sul lavoro. Nel dibattito attuale nessuno parla infatti dell’esigenza di ridisegnare il tempo che nasce all’interno della contrattazione e delle aziende. L’inverno demografico e la difficoltà che le aziende hanno nel reclutare le persone stanno avendo un impatto notevole. Ci siamo dovuti confrontare con un’inflazione inaspettata. Ci si è resi conto che una corsa al rialzo dei salari avrebbe innescato uno spirale pericolosa, e quindi si è deciso di non toccare le retribuzioni ma di offrire in cambio più tempo. È il lavoro che sta cambiando, conclude Martone, e le singole aziende stanno cercando di trovare ognuna delle soluzioni. Il rischio vero è quello di fermarsi, guardare indietro e rifugiarsi in modelli ormai obsoleti.
Mariano Fraioli, Head of Trade Union Relation in Tim, parte dal 1995 quando nell’allora Telecom si è partiti con il telelavoro. Il motivo era che con la chiusura delle piccole sedi si voleva evitare una emigrazione dei lavoratori in quelle più grandi. I risultati di questa nuova organizzazione, spiega Fraioli, hanno detto che le persone erano maggiormente motivate e lavoravano di più. La pandemia ha costretto a portare le persone a casa, ma i risvolti, sotto il profilo delle produttività, sono stati ottimi. Tim alla fine del 2022 ha sottoscritto un accordo sullo smart working, che è andato a rafforzare quello di espansione che già prevede dei giorni da remoto. La richiesta di flessibilità è molto sentita dalle nuove generazioni e quello che una volta era la forza del brand oggi non c’è più per trattenere le persone. Ora bisogna misurare le performance, visto che anche con lo smart working c’è stata una fisiologica flessione della produttività. Con la settimana corta si aprono due riflessioni: una legata alla dimensione gestionale delle diverse realtà produttive, le seconda riguarda sempre la produttività.
Cristina Cofacci di Cnh Industrial riprende il tema della divisione e dell’equilibrio tra chi può approfittare della flessibilità e chi non può. Per Cofacci bisogna parlare di un nuovo modello di fabbrica che sappia garantire il benessere delle persone. Il benessere deve essere anche dentro al lavoro, soprattutto nel manifatturiero.
Per Paolo Pirani, consigliere del Cnel, non c’è una soluzione di continuità tra lo smart working pre e post pandemia. Il sindacato si è trovato a dover gestire il tema dell’orario di lavoro in modo generalizzato. Quello che è mancato è stata una riflessione generale sulla questione, tranne che in alcuni casi aziendali, e l’organizzazione del tempo è stata molto assente dalla contrattazione, che si è rivolta prevalentemente al rapporto salario-inflazione. I cambiamenti di oggi si stanno affrontando senza avere un’idea guida comune. Lo smart working ha cambiato la percezione delle persone, e, finita la fase più acuta della pandemia, molte si sono interrogate se tornare alle vecchie modalità di lavoro. Le transizioni digitale e verde, incentivate dal Pnrr, dovrebbero essere un modo per ripensare il rapporto delle persone con il lavoro. Porsi il problema della rimodulazione dell’orario di lavoro all’interno di una società che non si muove in parallelo crea dei problemi. Si stanno creando anche delle progressive divisioni tra chi può usufruire dei benefici della flessibilità e chi no. Serve dunque un approccio olistico.
Secondo Laura Di Raimondo, direttrice di Asstel, questo approccio olistico deve venire dalla capacità di fare sistema da parte degli attori delle relazioni industriali. Oggi è un tempo nuovo nel quale leggere e vivere il lavoro. Servono strumenti nuovi per governare i cambiamenti che stanno attraversando le filiere che ora sono orizzontali. La necessità di una visione sistemica è utile anche per dare strumenti e soluzioni a tutte le piccole e medie imprese, che sono il grosso del tessuto produttivo del paese. Chi fa i contratti può sperimentare, fa politica industriale e può dare anche delle strade per il futuro. Serve una contrattazione d’anticipo, visionaria che non crei nuove diversità tra chi può beneficiare di determinate innovazioni e chi ne può restare escluso. L’inclusione è un pezzo dell’organizzazione del lavoro.
Per Mimmo Carrieri, professore di sociologia di lavoro alla Luiss, oggi non siamo più nel vecchio dibattito sull’orario di lavoro, pensato per favorire l’occupazione. La posta in gioco attuale è diversa. Il dibattito si concentra su come migliorare il benessere dei lavoratori e come questo si può innestare nella società. Oggi è esplosa la gestione individuale del tempo. Si sta alzando l’asticella di ciò che i lavoratori chiedono e quindi, di conseguenza, di ciò che le imprese e i sindacati possono dare. C’è la domanda di uscita da un lavoro di cattiva qualità, e la richiesta di autonomia e maggiore gratificazione economica. Non si parla unicamente dello smart working, ma di un ripensamento generale dell’organizzazione del lavoro, che diviene ora terreno di contrattazione e quindi contendibile anche dal sindacato. Il fordismo è stato un grande regolatore non solo della fabbrica ma anche della vita collettiva. Tramontato questo modello, uno nuovo non ne ha ancora preso il posto.