“L’adunata del 23 marzo (Milano, Piazza San Sepolcro) dichiara di opporsi all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia” era il motto di ribellione del Sansepolcrismo, o meglio di quel nazionalismo che sfocerà in seguito nel fascismo. Un nazionalismo che anche allora si mise l’abito dell’antipartito e che faceva scrivere a Mussolini: “noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti ed illegalisti a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente”. In esso convergeva anche quella corrente culturale definita Futurismo che non disdegnava di disprezzare la democrazia, chiamando i suoi sostenitori “democretini” con la stessa furiosa animosità con la quale intendeva fare a pezzi costumi consolidati e schemi culturali. In nome di una libertà assoluta che finì per essere inghiottita invece dall’assolutismo politico. Uno sguardo nel passato della nostra storia talvolta può essere utile per ragionare sul presente specie quando sembrano andare in frantumi logiche politiche che hanno retto per decenni. Più ancora che del verbo populista è bene diffidare di un nazionalismo che per sua natura ha caratteri ambigui.
Inutile negarlo: la profonda mutazione politica della nostra democrazia prosegue. La “moderazione” con la quale il nuovo Presidente del Consiglio Conte descrive il ruolo internazionale e l’ancoraggio europeo dell’Italia punta a rassicurare, la conferma dell’accettazione di regole incise nella Costituzione è ispirata alla stessa preoccupazione. Ma il banco di prova è e sarà quel proposito di un cambiamento che si dichiara di volere ma i cui connotati non sono per niente chiari e definiti. E’ davvero l’alba della terza Repubblica ? O siamo in un guado diverso dal passato, tutto da decifrare ma con innegabili insidie? Tocca al Governo giallo-verde spiegarlo con i fatti che dovranno svelare la vera natura ed i veri propositi di questa scommessa dopo settimane di incertezza. Ma non basterà per delineare il novo scenario politico. Tornare indietro comunque pare molto difficile a partire dalla indisponibilità dell’elettorato a ricollocarsi su posizioni che già ha bocciato e che non vuole restituire fiducia a politici cui l’ha tolta in modo inequivocabile. Semmai il punto è un altro: che tipo di forze politiche potranno rispondere in futuro alle sensibilità presenti nel Paese, a partire da quella riformista? E se va confessato che attualmente nelle opposizioni che fronteggeranno il nuovo Esecutivo non si intravedono convincenti proposte che possano diventare appetibili nel Paese non di meno il gioco democratico ha ed avrà bisogno di forze in grado di esprimere gruppi dirigenti e progetti diversi dal connubio giallo-verde ed in grado di rinnovare una vocazione autenticamente riformista.
Il contratto di programma del Governo è destinato inevitabilmente a fare i conti con la ristrettezze della realtà e le risorse effettivamente a disposizione, ma anche con le probabili evoluzioni di una maggioranza che è…un’unione di fatto ma che potrebbe nel tempo o non reggere al logorio della gestione di un Paese complesso come l’Italia o viceversa saldarsi in una esperienza politica del tutto inedita. Eppure non possiamo non notare il clima profondamente diverso da quello che, pur gravido di preoccupazioni e polemiche, accompagnò l’altro momento – questo sì storico – di cambiamento politico e sociale della nostra recente storia costituito dal primo centrosinistra con l’ingresso dei socialisti al Governo. Una atmosfera che andava incontro ad un popolo nel quale il cambiamento era sorretto da forti valori ideali, da una potente ricostruzione economica e civile e da speranze legittime e motivate cui dare risposta. La classe lavoratrice entrava nella stanza dei bottoni, si disse da parte dei socialisti. Ora invece abbiamo un Premier che si autodefinisce Avvocato difensore degli italiani. La differenza c’è e si vede.
Allora si diede un impulso formidabile alla modernizzazione dell’Italia con grandi opere come le autostrade, la nazionalizzazione dell’energia elettrica che portò la luce in tutte le case italiane, le battaglie per la Sanità e i diritti dei lavoratori sancite da leggi di civiltà, la scuola media unica che apriva le porte del sapere a ragazzi di tutte le estrazioni sociali, comprese le più umili. Alcuni nomi del riformismo socialista possiamo ricordarli e non erano dei Carneadi: i Nenni, i Pieraccini, i Mancini, i Lombardi, i Brodolini.
Oggi tutto e’ cambiato, ma resta all’ordine del giorno un rischio: quello di scambiare il cambiamento, che ci vuole, basta mettersi d’accordo su cosa deve essere, per un’avventura.
Negli anni ’60 lo stesso mondo imprenditoriale si collocò di traverso come una potente forza di opposizione alle riforme annunciate. Adesso la Confindustria di Boccia ammonisce sul fatto che se la “politica pensa di essere forte indebolendo l’economia, lavora contro se stessa”, ma attende di capire se tutto deve cambiare perché nulla, a suo favore, cambi.
Naturalmente come sindacato siamo abituati a giudicare i Governi dalle loro realizzazioni e dal valore che essi conferiranno al dialogo sociale.
Ma dobbiamo ricordare comunque che noi non deleghiamo la tutela dei in diritti di lavoratrici e lavoratori a nessuno. Ha avuto fortuna in queste settimane una battuta che ha coniato un nuovo paradigma della …lotta di classe: “popolo contro elite”. Noi restiamo affezionati invece ad una cultura del lavoro che è agli antipodi di questo modo di pensare. Il nostro intendimento invece poggia su esigenze, speranze e prerogative di coloro che aspirano ad un lavoro vero, lo svolgono tenendo in piedi l’economia del Paese, lo lasciano con la coscienza a posto. E tutti chiedono rispetto per la loro dignità, che respinge l’idea di essere considerati plebe da manovrare contro qualcuno o qualcosa.
Non deleghiamo perché la questione lavoro è più che mai centrale, perché c’è un problema di reale equità fiscale dopo il quale sarà almeno comprensibile la cosiddetta pace fiscale, perché ci sono due grandi nodi da sciogliere che sono una politica industriale che non riduca ancora il nostro tessuto produttivo e di cui non si vede traccia nelle proposte fatte. Il secondo nodo riguarda gli interventi nel Mezzogiorno che non si risolvano in rimodernate politiche assistenziali la cui conseguenza sarà probabilmente quella di altre fughe di giovani dal Sud e l’aumento delle diseguaglianze. Anche questo, soprattutto questo è…Paese reale, in attesa di risposte vere, non di mance.
Non abbiamo nulla contro il contratto di programma. Ci aspettiamo che esso sia diluito ovviamente in una gradualità di decisioni e misure che non potranno non tener conto di quanto ogni passo costa. Salta agli occhi l’impossibilità di buttare sul tavolo in tempi brevi miliardi e miliardi che servono per attuare quelle promesse. Ma valuteremo con attenzione e determinazione le priorità che si intenderanno perseguire e che debbono essere in sintonia, si spera, non con la pancia ma con la testa del Paese.
Non v’è dubbio che la nuova legislatura abbia anche il compito di mettere a posto quanto di sbagliato ci trasciniamo dal tempo delle sudditanze alla finanza ed ai diktat rigoristi e da quello del Governo Monti. Ma ci interessa molto che non vengano trascurati fenomeni che pure sono dirompenti: il precariato nel lavoro continua a farla da padrone; il maggior salasso occupazionale è avvenuto nelle costruzioni e quindi se si vuol cambiare non si può non ripartire da grandi opere e dalla manutenzione del territorio. Il calo degli investimenti e le dinamiche asfittiche sul piano salariale hanno riportato l’Italia ad essere fanalino di coda della crescita europea. Servono misure incisive.
Certo, poi c’è l’Europa. Non ci stracceremo le vesti se a discutere con Bruxelles e Francoforte è un Governo ed un Ministro dell’Economia che affronta con spirito di dialogo ma anche forte determinazione critica punti centrali della attuale architettura europea che fa da base all’euro. Facciamoci sentire, certo. Facciamo alleanze utili allo scopo. Ma attenzione: noi siamo per un’Europa sociale che è stata quella che ha permesso ai nostri popoli di progredire e di puntare a realizzare davvero una casa comune, volta alla integrazione, ad includere e con un welfare evoluto.
Il “prima l’Italia” non può finire in salsa “greca”-
Il movimento sindacale ha, pur con i suoi limiti, buone ragioni da far valere. Questa nuova stagione politica è una scommessa anche per il nostro impegno. Non si tratta di essere all’altezza dell’ennesimo “libro dei sogni” ma di un progetto di crescita stabile di cui si avverte la necessità ed al quale si deve contribuire. Non saremo un coro che accompagna le litanie delle riserve pregiudiziali, ma non lesineremo critiche se sarà il caso, rafforzandole con tutte le iniziative che riterremo indispensabili per evitare che l’economia italiana torni a deragliare.
Non illuda il fatto che anche quest’anno avremo una crescita attorno all’1,4% ed un calo della disoccupazione che resterà a due cifre. Dovremo fare i conti con un rallentamento dell’economia mondiale, con le tensioni internazionali di cui il petrolio continua ad avvertire il peso e, soprattutto con la modifica della politica monetaria della Bce. Più che aver un piano B per una eventuale uscita dall’euro, dovremmo dotarci di un piano A per non veder svanire i già modesti frutti della ripresa e cominciare sul serio a ridurre il debito principalmente con la spinta di un vigoroso sviluppo. .
Al tempo stesso non si dimentichi quello che affermarono i sindacalisti italiani impegnati nella sottocommissione della Costituente: “non è mai accaduto, e non può accadere, ai liberi sindacati dei lavoratori, di avere interessi contrari a quelli della collettività nazionale…tutta la società moderna pone il lavoro come fondamento del proprio sviluppo…”. Noi siamo stati questo, lo diciamo con legittimo orgoglio, e continueremo ad interpretare questo ruolo.