Con le sentenze 11 e 12 questa mattina la Corte costituzionale ha reso ammissibili le richieste di referendum in materia di cittadinanza – in base al quale tutti gli stranieri maggiorenni con cittadinanza di uno Stato non appartenente all`Unione europea potrebbero presentare richiesta di concessione della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza legale in Italia – e sull`abrogazione del decreto legislativo numero 23 del 2015 – che ha attuato una delle deleghe legislative conferite al Governo con il cosiddetto Jobs Act. Ammissibili anche con la sentenza numero 13 il referendum popolare per l`abrogazione dell`articolo 8 della legge numero 604 del 1966 – limitatamente alle parole che stabiliscono una misura massima (pari a sei mensilità dell`ultima retribuzione globale di fatto) per la liquidazione dell`indennità da licenziamento illegittimo – e con la sentenza numero 14 la richiesta di referendum abrogativo denominata ‘Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi’.
In particolare, la Corte costituzionale ha definito il quesito sulla cittadinanza “omogeneo, chiaro e univoco”, per cui all`elettore è proposta una scelta facilmente intellegibile in ordine agli anni di residenza nel territorio della Repubblica necessari, per il maggiorenne cittadino di uno Stato non appartenente all`UE, per poter presentare domanda di concessione della cittadinanza italiana: dieci, come attualmente previsto, o cinque, come eventualmente disporrebbe la legge in caso di approvazione del referendum abrogativo, spiega la Consulta.
La richiesta referendaria non contraddice neppure la natura abrogativa del referendum, che la Corte ha costantemente ritenuto non può essere utilizzato per costruire, attraverso il quesito, nuove norme non ricavabili dall`ordinamento. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la nuova regola non sarebbe del tutto estranea al contesto normativo di riferimento. In caso di approvazione del referendum abrogativo, infatti, verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e l`adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di atto discrezionale di “alta amministrazione” del provvedimento di concessione della cittadinanza.
La Corte ha rilevato che, del resto, il quinquennio di residenza legale sul territorio nazionale, che prima della legge numero 91 del 1992 era il requisito temporale richiesto allo straniero per poter ottenere la cittadinanza italiana, è già oggi previsto dalla legge quale presupposto perché possano conseguire la cittadinanza italiana gli stranieri maggiorenni adottati da cittadino italiano, gli apolidi e i rifugiati.
La normativa di risulta, pertanto, sarebbe pienamente in linea con un criterio già utilizzato dal legislatore.
Quanto al quesito sull’abrogazione del Jobs Act, la Corte costituzionale ha precisato: la “circostanza che all`esito dell`approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità” del licenziamento, perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) “si avrebbe, invece, un arretramento di tutela”, non inficia la chiarezza, l`omogeneità e l`univocità della richiesta di referendum.
Il quesito referendario chiama, infatti, il corpo elettorale “a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria”. Questa è ravvisabile, ha precisato la Corte, “nel profilo teleologico sotteso al quesito referendario, mirante all`abrogazione di un corpus organico di norme e funzionale alla reductio ad unum, senza più la divisione tra prima e dopo la data del 7 marzo 2015, della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, con la riespansione della disciplina pregressa, valevole per tutti i dipendenti”, a prescindere dalla data della loro assunzione.
Rimane, pertanto, salvaguardato, ha concluso la Corte, “un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario”, ciò che esclude che si sia in presenza di “un uso artificioso del referendum abrogativo”.
Per il referendum popolare per l`abrogazione dell`articolo 8 della legge numero 604 del 1966, limitatamente alle parole che stabiliscono una misura massima (pari a sei mensilità dell`ultima retribuzione globale di fatto) per la liquidazione dell`indennità da licenziamento illegittimo, in motivazione la Corte ha precisato che la norma oggetto del quesito referendario trova oggi applicazione, a seguito delle modifiche intervenute nella legislazione in materia, nei confronti dei soli lavoratori assunti alle dipendenze delle cosiddette “piccole imprese” (ossia, presso datori di lavoro che non raggiungono la soglia dimensionale indicata dall`articolo 18, ottavo comma, dello Statuto dei lavoratori) prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo numero 23 del 2015, attuativo della legge sul Jobs act.
A giudizio della Corte, il quesito in esame non incontra i limiti di cui all`articolo 75 della Costituzione e risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, in quanto pone una chiara alternativa all`elettore: mantenere l`attuale misura massima dell`indennità, ovvero rimuoverla per consentire al giudice di quantificare, senza più tale ostacolo, un ristoro equo con congruo effetto deterrente.
Quanto all’”Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”,
il quesito referendario riguarda l`abrogazione di alcune previsioni (articoli 19, commi 1, 1-bis e 4, e 21, comma 01, del decreto legislativo numero 81 del 2015) che attualmente consentono la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga e/o il rinnovo) fino a un anno senza dover fornire alcuna giustificazione, e, per quelli di durata superiore, sulla base di una giustificazione individuata dalle parti, anche se non prevista né dalla legge, né dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale.
Le norme oggetto del quesito non rientrano fra le leggi per cui la Costituzione, all`articolo 75, esclude che si possa richiedere referendum abrogativo.
Il quesito, inoltre, soddisfa tutti i requisiti (di chiarezza, omogeneità, univocità) richiesti per consentire all`elettore di esercitare una scelta libera e consapevole. Esso, infatti, è formulato nei termini di un`alternativa secca: da un lato, abrogare le disposizioni vigenti, con conseguente estensione ai rapporti di lavoro di durata infrannuale dell`obbligo di giustificazione dell`apposizione del termine oggi sussistente per la stipulazione di contratti di lavoro di durata superiore all`anno e il necessario riferimento, per tutti i contratti a termine, alle sole cause giustificative previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall`altro, conservare la normativa vigente, che, all`opposto, ne liberalizza l`impiego.
Infine la Consulta ha ha pubblicato anche la sentenza con la quale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della legge sull’autonomia differenziata, nella quale rileva che l`oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. I giudici costituzionali affermano che la recente sentenza della stessa Corte sulla parziale incostituzionalità “ha profondamente inciso sull`architettura essenziale della predetta legge, dichiarando l`illegittimità costituzionale di molteplici disposizioni della stessa legge e l`illegittimità consequenziale di altre disposizioni, fornendo anche l`interpretazione costituzionalmente orientata di ulteriori disposizioni”.
La sentenza numero 192 “ha comportato il trasversale ridimensionamento dell`oggetto dei possibili trasferimenti alle regioni (solo specifiche funzioni e non già materie), nonché la paralisi dell`individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti diritti civili o sociali. Ne discende che attualmente non c`è modo di determinare i LEP”.
“La conseguenza è che risulta obiettivamente oscuro l`oggetto del quesito, che originariamente riguardava la legge numero 86 e ora riguarda quel che resta della stessa legge a seguito delle numerose e complesse modifiche apportate dalla sentenza numero 192. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta libera e consapevole da parte dell`elettore, che la Costituzione garantisce” spiega la Consulta.
“La rilevata oscurità dell`oggetto del quesito porta con sé un`insuperabile incertezza sulla stessa finalità obiettiva del referendum. Con il rischio che esso si risolva in altro: nel far esercitare un`opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato. La consultazione referendaria verrebbe ad avere una portata che trascende quel che i Costituenti ritennero fondamentale, cioè l`uso corretto – e ragionevole – di questo importante strumento di democrazia”.
“Se si ammettesse la richiesta in esame, si avrebbe una radicale polarizzazione identitaria sull`autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull`articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale” concludono i giudici costituzionali.