Paolo Pirani, segretario confederale Uil
Il dibattito sulla riforma del sistema contrattuale vive di una ciclicità propria. L’opportunità o la necessità di un cambiamento viene sistematicamente riproposta senza che ciò determini però la definizione di nuovi assetti. Né l’unico vero momento di verifica, culminato nel patto di Natale del 1998, ha sortito alcun effetto essendosi determinata in quella circostanza la mera riproposizione del meccanismo fissato con il protocollo del luglio 1993.
Peraltro, quel modello ha funzionato egregiamente, in particolare nei primi anni successivi alla sua genesi, garantendo l’adozione di politiche salariali responsabili e, anche per questa via, il contenimento delle dinamiche inflattive e il risanamento della nostra economia.
Nel contempo, il determinarsi di questa virtuosa evoluzione, congiunta al corretto utilizzo di quello strumento, ha consentito di salvaguardare efficacemente il salario reale dei lavoratori spezzando così quella spirale perversa che aveva visto avvilupparsi tra loro, in una rincorsa sfrenata e irrazionale, i salari e l’inflazione sino ai primi anni ‘90.
Nella sua struttura essenziale e schematica il doppio livello di contrattazione conserva ancora la sua validità ed efficacia. Ma il cambiamento di scenario macroeconomico, da un lato, e l’irruzione nella nostra quotidianità delle scelte europeiste e regionaliste impone una rivisitazione di quel modello che, in realtà, va riempito di altri contenuti. In particolare, è necessario introdurre elementi dinamici nella politica salariale in rapporto all’andamento della singola impresa. Ciò vuol dire che occorre creare le condizioni per incrementare il peso specifico della contrattazione decentrata, così da avvicinare sempre più al luogo di lavoro il momento della redistribuzione della ricchezza prodotta.
Peraltro, l’introduzione di questi elementi di flessibilità contrattuale che consentirebbero di adeguare le dinamiche salariali alla produttività e ai rendimenti aziendali, avrebbe come conseguenza anche il venir meno di quelle politiche di deroga che hanno caratterizzato gli accordi territoriali nel Mezzogiorno. Insomma una flessibilità positiva, fattore di crescita e sviluppo, in un contesto di certezze e garanzie contrattuali, potrebbe rilanciare un modello ormai obsoleto e poco efficace.
In questo quadro, al primo livello sarebbe attribuito il semplice compito di recuperare l’inflazione, al secondo invece quello di erogare la ricchezza prodotta. E’ del tutto evidente che questo sistema presuppone la capacità di esigere la contrattazione decentrata nel modo più capillare possibile, rendendola certa a livello aziendale o, per le realtà artigiane e la piccola impresa, a livello territoriale.
Diventa inoltre ad esso funzionale una razionalizzazione della tempistica che renda meno farraginoso ed aleatorio il raffronto tra inflazione programmata e reale, superando il biennio salariale e stipulando il contratto nazionale ogni tre e quattro anni senza soprapposizioni con la contrattazione decentrata. Infine, un consolidamento della defiscalizzazione della contrattazione di secondo livello accompagnata da una decontribuzione delle retribuzioni più basse completerebbe l’innovazione del quadro. Si genererebbe così una nuova stagione di relazioni sindacali caratterizzata da una maggiore attenzione alle esigenze delle imprese e da una più efficace garanzia e tutela dei diritti contrattuali dei lavoratori.
Occorre affrontare in tale ambito il processo che vede emergere un doppio mercato del lavoro, da un lato una fascia maggiormente garantita, dall’altro lavoratori scarsamente tutelati (piccole imprese, studi professionali, immigrati, etc.).
Occorre essere capaci di rappresentare nuovi e vecchi lavori.
Soluzioni contrattuali sono da ricercare attorno alla riqualificazione e alla formazione nel e al lavoro; cosi’ come occorrerà cercare delle soluzioni per garantire, a chi oggi ne è escluso, la possibilità di accedere per via contrattuale a fondi integrativi sia previdenziali che sanitari.
Non si può poi non cogliere il cambiamento in atto nell’atteggiamento soggettivo nei confronti del rapporto di lavoro. La crescita del contenuto di intelligenza nel lavoro comporta anche una crescita di autonomia e di rischio per il lavoratore.
E se nelle organizzazioni produttive moderne vengono progressivamente meno le forme di rapporto di lavoro basate sul comando (si può comandare ad un lavoratore di eseguire un ordine banale non di impiegare la propria intelligenza) è evidente che anche le tutele collettive basate sui vecchi rapporti di lavoro non sono più sufficienti.
La valorizzazione della professionalità passa anche attraverso lo sviluppo di una incentivazione individuale dove, nell’ambito di una cornice generale di tutele, il lavoratore deve poter negoziare individualmente lo scambio tra prestazione e remunerazione. E’ un salto culturale che il sindacato deve compiere per continuare ad essere considerato nell’ambito dei lavoratori della conoscenza uno strumento utile per gestire questo doppio livello di contrattazione tra regole generali e riconoscimento individuale.
Questa auspicabile rimodulazione dell’impianto contrattuale deve anche prevedere una ridefinizione dei confini merceologici dei singoli contratti. Il mondo produttivo ha subito in questi ultimi anni trasformazioni epocali che hanno determinato condizioni del tutto differenti da quelle in cui sono nati i modelli ancor oggi applicati. Assistiamo persino ad un mutamento nella stessa concezione del prodotto, in cui si allunga la catena del valore nel rapporto tra prodotto manufatturiero, prodotto immateriale e servizi alla produzione.
Una rivisitazione di quei confini, dunque, è diventata una necessità per rispondere sia ad oggettive esigenze di garanzia dei lavoratori, sia per arginare i rischi di dumping nei settori in via di liberalizzazione e privatizzazione. Risultati importanti su questo fronte sono già stati conseguiti nelle telecomunicazioni e nell’energia, mentre in via di compimento sono i contratti di settore per i lavoratori delle aziende che erogano e distribuiscono gas ed acqua. Ancora troppo lentamente in fieri è invece la discussione per i trasporti; così come diventa urgente un ripensamento dell’esperienza contrattuale onnicomprensiva che caratterizza il modello metalmeccanico. Per quest’ultimo settore esiste, tra l’altro, un problema di valorizzazione delle specificità – davvero molto diverse tra loro se solo si pensa alla siderurgia e all’informatica – che può trovare soluzione attraverso la definizione di più contratti distinti.
Fin qui, seppur schematicamente, le analisi e le proposte di fronte alle quali, tuttavia, si rischia di arrestarsi. Il mutamento del quadro politico e il cambiamento degli equilibri e degli assetti nello stesso mondo sindacale rischiano oggi di far assumere a queste riflessioni semplicemente il valore di un’esercitazione accademica. Come già ricordato, il mondo del lavoro ha perso una grande occasione quando nel 1998 si era profilata la possibilità di una revisione dell’accordo del luglio 1993. Il patto di Natale determinò infatti la mera riproposizione del modello contrattuale in essere, che ha così perso smalto e consistenza fino a rivelarsi inadeguato se solo si pensa alla vicenda del recente rinnovo contrattuale dei metalmeccanici.
Un’occasione persa – dicevamo – ma anche, potremmo oggi sostenere senza tema di smentite, una vera e propria sconfitta per il mondo del lavoro. Allora c’erano le condizioni politiche per dare il via ai progetti di unità sindacale, da un lato, e di riforma del sistema contrattuale, dall’altro. Ma nel fronte sindacale ci fu chi preferì tirare il freno e, con poca lungimiranza, arrestare un processo con effetti la cui negatività oggi appare con chiarezza dentro e fuori il sindacato. Di lì scaturì la deriva che ha investito prima la Cisl di D’Antoni con le rovinose conseguenze politiche a tutti note e, successivamente, la Cgil di Cofferati, impelagatasi in un percorso di autoreferenzialità politica dagli esiti nefasti nella costruzione di un sindacato unitario e riformista del nostro Paese. Se a questi problemi endogeni al sindacato si aggiunge poi che il Governo punta a sostituire la concertazione con il dialogo sociale mentre nella Confindustria il tratto dominante della presidenza D’Amato è l’appiattimento su posizioni di tipo lobbistico, appare con tutta evidenza l’errore di chi nel sindacato respinse un indispensabile progetto di revisione dell’accordo del 1993 e di nuova rappresentanza unitaria del lavoratori.
Peraltro, i tentativi di innovazione perseguiti dall’attuale Governo, anche attraverso la predisposizione del cosiddetto Libro bianco, sono solo apparenti, anzi, virtuali. L’idea di provare ad incidere sul sistema contrattuale proponendo come via maestra un’individualizzazione del rapporto di lavoro non fa altro che acuire la frattura generazionale e, quel che è più paradossale, la rinuncia alla concertazione come politica delle relazioni sindacali rende di fatto impraticabile il percorso definito.
Andrebbe invece rilanciata l’idea di una contrattazione capace di coniugare le esigenze collettive con quelle individuali. Una riforma del sistema contrattuale sarà necessaria e inevitabile se si abbandonerà l’idea, che a destra e a sinistra, pare emergere, di una regolamentazione della dialettica sociale basata pressochè esclusivamente sui rapporti di forza.