Venerdì 15 settembre, grande appuntamento all’Auditorium Parco della Musica di Roma per l’assemblea annuale di Confindustria. Si condensano lì le forze vive del paese, tutte le grandi imprese, tutti i centri di potere, tutta la politica che conta o che crede di contare. Normalmente c’è un affollo di ministri e viceministri, tale da mettere in crisi gli uffici del cerimoniale che devono misurare con il bilancino ogni posizione e poltrona per cercare di non scontentare troppe persone. Anche stavolta è stato così: non solo praticamente tutto il governo Meloni, premier compresa, ma anche il presidente della Repubblica, molto lungamente applaudito. Forse, però, senza che ci sia stata una grande attesa per quello che Carlo Bonomi, il presidente degli industriali, si apprestava a dire. E in effetti la relazione è stata assai sintetica, e l’assemblea stessa è durata poco più di un’ora.
In realtà, questa è l’ultima assemblea del presidente in carica, eletto nella primavera 2020, in piena pandemia, e l’attesa avrebbe dovuto essere vigile e intensa, perché è questa l’occasione in cui un presidente, giunto quasi al traguardo del suo mandato, stila un bilancio di quanto fatto, dei risultati ottenuti, del mandato che lascia al suo successore. L’assemblea dell’ultimo anno è invece incentrata sul nuovo vertice, del vecchio non pare non curarsi più nessuno. C’è da credere che l’attesa stavolta non sia stata densa come in passato. Perché Confindustria, a differenza degli scorsi decenni, ha cessato di essere un importante punto di riferimento del dibattito politico, economico e sociale.
Bonomi aveva destato grandi attese quando è arrivato al vertice degli industriali. Da presidente di Assolombarda, l’associazione più forte e rappresentativa di tutta la confederazione, aveva fustigato l’operato del suo predecessore, Vincenzo Boccia, affermando che Confindustria era entrata in un cono d’ombra: non contava più negli equilibri generali del paese, era diventata improvvisamente obsoleta e in quanto tale trascurabile. I suoi discorsi pubblici, ne ricordiamo almeno tre, furono altrettante staffilate all’operato di Boccia, reo di questo scivolamento nell’ombra. E aveva suscitato speranze e, da parte dei concorrenti, timori.
Va detto che i primi passi del nuovo presidente, appena entrato in carica, non erano stati facili, funestati dalla pandemia che tre anni fa aveva bloccato il paese. Confindustria, assieme a Cgil, Cisl e Uil, recuperando un protagonismo come non si vedeva da tempo, riuscì a reagire e si arrivò alla firma del grande e fondamentale accordo triangolare che decretò come si dovesse lavorare, cosa si dovesse far funzionare, cosa tenere fermo per tutelare la salute dei lavoratori e mantenere in piedi l’ossatura di fondo del sistema della produzione. Un atto di coraggio che proprio oggi, intervenendo all’assemblea, il presidente Mattarella ha ricordato, ringraziando Confindustria per aver contribuito a evitare il blocco totale del paese.
Poi, però, mese dopo mese, anno dopo anno, l’associazione degli industriali è nuovamente caduta in quel cono d’ombra dal quale Bonomi avrebbe dovuto tirarla fuori. L’unico guizzo degno di nota è venuto quando, con presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione di un’assemblea di Confindustria, Bonomi propose alle forze politiche e sociali la definizione di un grande patto sociale che ridesse fiato a un paese stanco e ripiegato su sé stesso. Draghi colse al volo l’opportunità e nel corso della stessa assemblea espresse la sua piena disponibilità. Il sindacato, Maurizio Landini in particolare, si mise però di traverso e nei fatti affossò l’idea. Bonomi, che evidentemente aveva lanciato un ballon d’essai senza però prepararlo politicamente come invece sarebbe stato necessario, si rassegnò subito all’inazione, salvo lamentarsi del fatto che non gli avevano consentito di osare. Ancora oggi, infatti, ha voluto rimarcare che si è trattato di una ‘’occasione persa’’.
Da allora, nulla più. Confindustria e il suo presidente sono semplicemente usciti di scena, non hanno fatto più notizia, sempre meno i grandi quotidiani hanno sentito il bisogno di chiedere l’opinione di Bonomi, come hanno sempre fatto in passato con i precedenti presidenti di Confindustria. E da Bonomi, del resto, non è venuta più un’idea, una proposta, un’analisi. Eppure, questi ultimi anni sono stati densissimi per l’economia e per il lavoro. La pandemia prima, la guerra dopo, le transizioni che stiamo vivendo, le grandi trasformazione degli equilibri geopolitici, ogni momento della vita del paese avrebbe potuto essere l’occasione per un’iniziativa, una presa di posizione, l’espressione di un punto di vista. Nel campo del lavoro, che resta il core business di Confindustria e la ragione stessa della sua nascita, in questi anni è successo di tutto, nel bene e nel male, ma dalla associazione degli industriali non è arrivata alcuna reazione. Non è stato così per le aziende, e soprattutto le grandi aziende, che hanno vissuto questi stessi momenti di passaggio da protagoniste, lanciandosi in iniziative anche molto interessanti. Spinte dalla necessità di comprendere come si stia trasformando il lavoro, hanno partecipato attivamente al dibattito nazionale.
La conferma di questo appannamento è lo scarso pathos sul successore di Bonomi. Normalmente, almeno nei decenni passati, un anno prima della scadenza del presidente o si sapeva già chi lo avrebbe sostituito o era in corso una battaglia tra le diverse componenti per assicurarsi la guida della confederazione. Quest’anno, non si muove foglia. Sarà responsabilità nostra, di noi giornalisti: forse non abbiamo l’udito necessario per avvertire questi movimenti, ma neanche un sussurro ci è arrivato, o una voce, o una qualche indicazione su come si stanno muovendo i gruppi di potere che potrebbero pesare al momento della scelta. È certamente positivo che stavolta, a differenza di quanto è accaduto in passato, la confederazione non si sia divisa nettamente in due partiti, perché poi, una volta scelto il nuovo presidente, queste fratture non si ricompongono facilmente, o non si ricompongono affatto, e pesano sull’operato della confederazione. Stavolta pare non stia accadendo nulla. Resta la speranza che la responsabilità sia solo nostra e che Confindustria si appresti invece a un futuro di grande protagonismo, quello cui ci aveva abituato nella sua lunga vita.
Massimo Mascini