Il Senato della Repubblica, con Delibera del 31 ottobre 2019, ha istituito una commissione di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. La Commissione, presieduta da Gianclaudio Bressa (Pd), si è insediata 12 maggio del 2021. In vista della fine della legislatura la Commissione ha presentato nelle settimane scorse una relazione definita “intermedia”, di 408 pagine, sull’attività svolta, nella quale, oltre a descrivere l’approccio al problema, i criteri seguiti, le verbalizzazioni, i documenti pervenuti nel corso delle numerose audizioni vengo anche tracciate alcune considerazioni relative alla realtà accertata nei suoi multiformi aspetti. E’ impossibile riassumere in un articolo una relazione tanto ampia. Mi limiterò quindi ad evidenziare le considerazioni che mi sono sembrate più interessanti come valutazione dei problemi della sicurezza e della salute sul lavoro (SSL).
Infortuni e malattie professionali
La relazione sottolinea che le cause degli incidenti mortali e di quelli gravemente lesivi si devono rintracciare materialmente nella violazione delle normative in materia di sicurezza del lavoro e specificamente nella trascuratezza della formazione quale prima forma di prevenzione culturale, della sorveglianza sanitaria e dell’obbligo di vigilanza all’interno dell’ambito lavorativo. Uno sguardo panoramico sulle cause più frequenti, come si desume dalla lettura dei dati INAIL e delle attività svolte dall’Ispettorato nazionale del lavoro, dimostra indubbiamente che si è ritornati ad un andamento non solo di crescita del numero degli incidenti ma, soprattutto, ad un ritorno del tipo delle cause del fenomeno materiale che porta ad eventi lesivi. Infatti, le cause ricorrenti rintracciate nello schiacciamento, nella caduta dall’alto, nell’impatto con macchine e attrezzature, nel coinvolgi mento del corpo del lavoratore in impianti micidiali, dimostra che l’evoluzione del parco tecnologico non è stato accompagnato da una crescita dell’attenzione in particolare della formazione e dell’addestramento che sono i primi strumenti preventivi per insegnare al lavoratore se, come, quando potersi approcciare all’oggetto del proprio lavoro. Nessuna evoluzione tecnologica, al cui adeguamento è tenuto il datore di lavoro, – l’annotazione è molto significativa – può mai sopperire all’incuria, alla trascuratezza alla superficialità con cui si gestisce una macchina, un impianto, un’attrezzatura. In sostanza, la Relazione mette in evidenza che, al di là dei pur necessari controlli ispettivi e gli investimenti in misure di sicurezza, sono fondamentali la formazione, ma soprattutto la collaborazione e l’attenzione. Sono la solidarietà della comunità lavorativa e la correttezza dei comportamenti nell’uso degli strumenti e delle procedure previste a garantire una maggiore sicurezza del lavoro. La causa di un grave incidente è nella generalità un mancato adempimento delle regole prescritte, perché la nostra legislazione in materia è molto avanzata, a partire dalla norma di chiusura di cui all’articolo 2087 c.c. In breve, non si muore soltanto di cadute dall’alto o per schiacciamento o altre dinamiche ma anche per la cattiva organizzazione.
Gli incidenti sul lavoro – osserva la Commissione – coinvolgono quasi esclusivamente operai e manovalanza di vario tipo, a dimostrazione che – in forza dello studio della causalità dei singoli incidenti – sono vittime sempre gli anelli deboli della catena lavorativa. Di conseguenza – suggerisce la Relazione – se si vuole misurare l’efficienza del nostro sistema di prevenzione, non si deve trascurare un’analisi volta a valutare in che misura incida sulla morte o lesione di un operaio o di un agricoltore la gerarchia funzionale delle posizioni di garanzia all’interno di un’impresa. Se a subire quasi sempre gli eventi lesivi sono gli operatori della fascia più bassa dell’attività lavorativa, evidentemente vi è un sistema organizzativo del l’impresa che non presta la dovuta attenzione a tutti gli obblighi della sicurezza e che scarica sui lavoratori i deficit strutturali e organizzativi dell’ambiente di lavoro.
La Commissione apre un’ampia riflessione sui costi umani, produttivi, sociali, ma anche economici degli infortuni sul lavoro, criticando che questo aspetto non sia abbastanza curato in Italia. A livello mondiale gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali costano nel 2019 circa 3.050 MLD di euro, quasi il 4% del PIL e a livello europeo (fonti CE) circa 460 MLD di euro, oltre il 3,3 % del PIL. A livello italiano, secondo recenti stime dell’INAIL, il danno economico causato da infortuni e malattie professionali è risultato, nel 2007, pari a quasi 48 miliardi di euro, ovvero più del 3% del PIL. Un altro dato significativo è la stima del ROP (Return On Prevention), il ritorno dell’investimento in sicurezza e prevenzione da malattie e infortuni, che risulta pari 2,2: ovvero ogni euro speso in Salute Sicurezza sul Lavoro (SSL) genera un valore più che doppio. Peraltro, la pandemia COVID rappresenta un punto di discontinuità sia nei dati epidemiologici sia nelle relative implicazioni economiche e sociali, che dovrà essere approfondito insieme ad altri importanti cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo del lavoro a fronte dagli effetti combinati del progresso tecnologico, del cambiamento demografico, del cambiamento climatico, della globalizzazione e dell’organizzazione del lavoro (come lo smart working e le nuove professioni green e tecnologiche) la Relazione si sofferma, poi, su esperienze compiute in altri Paesi che possono servire da benckmarking.
L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che ogni anno nel mondo 2,8 milioni di persone muoiono per incidenti o malattie legate al lavoro. Di questi, circa 400 mila lavoratori sono vittime d’infortuni mortali e 2,4 milioni sono le morti causate da malattie professionali. A queste cifre si aggiungono più di 374 milioni di lavoratori vittime ogni anno d’infortuni sul lavoro non mortali ma che provocano lesioni gravi e portano ad assenze dal lavoro. A livello europeo, nonostante negli ultimi trent’anni sono stati compiuti progressi significativi in materia di sicurezza e salute sul lavoro, (tra il 1994 e il 2018 gli infortuni mortali sul lavoro sono diminuiti di circa il 70%), nel 2018 si sono registrati ancora oltre 3.300 infortuni mortali e 3,1 milioni di infortuni non mortali; inoltre, ogni anno muoiono più di 200.000 lavoratori a causa di malattie professionali.
Lo sfruttamento del lavoro
Vi è una stretta correlazione tra gli incidenti e il lavoro irregolare, sommerso. Il tema dello sfruttamento del lavoro si concentra nel settore agricolo, dove maggiormente si registra lavoro irregolare con ricorso a manodopera sottopagata, priva di condizioni di lavoro e umane dignitose, di provenienza extracomunitaria. Si nota, altresì, una specificità di genere che grava sulle lavoratrici per lavori faticosi per condizioni, orari, retribuzioni. Le evidenze dimostrano che il reato di intermediazione illecita di manodopera si registra in ogni campo lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristorazione, servizi a domicilio, pesca, cantieristica navale. Altro elemento da porre in evidenza riguarda la diffusione su tutto il territorio, nelle campagne, soprattutto nelle province ad alta vocazione agricola, nelle periferie metropolitane, per l’edilizia o per trasporti, per il facchinaggio (e le cooperative spurie), per i lavori di manutenzione.
Un ulteriore profilo, segnalato dall’Ispettorato Nazionale del lavoro, riguarda il ruolo delle vittime. Sono rarissime o pressoché inesistenti le denunce presentate dai lavoratori e dalle lavoratrici oggetto di sfruttamento. La quasi totalità delle indagini svolte in materia di caporalato e più ampiamente di sfruttamento del lavoro, sono avviate su iniziativa degli uffici e in particolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. La certezza che giungono raramente denunce da parte delle vittime è un indice chiaro, netto, univoco che lo sfruttamento del lavoro condiziona, ancor prima che le disumane e indegne vite di lavoratori, la stessa libertà delle vittime di reagire all’ingiustizia e alla vessazione e di chiedere protezione sociale. Si tratta di un elemento ben più forte della classica omertà, che si caratterizza per il mero silenzio e per la paura, poiché nel caso del lavoratore o della lavoratrice sfruttati si aggiunge il grave bisogno di accettare qualsiasi condizione di lavoro, con retribuzione indegna, senza condizioni di sicurezza o in taluni casi anche presso alloggi degradanti in quanto privi di qualsiasi requisito di abitabilità. In definitiva, l’assenza di denunce è da ricondurre a una particolare e profonda precondizione di disagio economico, umano e sociale al quale la vittima non riesce a reagire.
Peraltro, si sta allargando una forma di caporalato “delegato”, in quanto svolgono questa funzione criminale stranieri extracomunitari che sfruttano per conto terzi il lavoro di altri stranieri irregolari.
Il c.d. caporalato digitale
Secondo la Commissione, la figura del datore di lavoro, sempre più evanescente, costituisce spesso l’occasione favorevole per la nascita di nuovi fenomeni di sfruttamento del lavoro quale ad esempio il caporalato digitale dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli. Il luogo e l’orario di lavoro sono oggi concetti fluidi, affrancati dalle classiche nozioni normative che necessitano di una disciplina specifica in grado di tutelare le nuove esigenze di sicurezza. Le nuove tecnologie stanno mutando radicalmente la dimensione spaziotemporale dei luoghi di lavoro. Per i rider, i luoghi di lavoro sono le città, per i nuovi operai dell’Industria 4.0 vi sono i cosiddetti cyberphysi cal workplace – luoghi di lavoro in cui software ed algoritmi sono complementari agli hardware: macchine, robot, computer, braccialetti o visori di realtà aumentata. Per entrambi, il tempo di lavoro è ormai calcolato minuziosamente sul tempo effettivamente lavorato e valutato da scrupolosi ed invasivi strumenti di performance metrics. Ma il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale possano diventare uno strumento prescrittivo senza controllo. Gli algoritmi funzionano principalmente come sistemi atti a produrre canoni da considerare lo standard al quale adeguarsi per massimizzare le performance dei lavoratori. Questi congegni, inoltre, utilizzano i medesimi standard anche per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori. Nell’organizzazione dei fattori di produzione l’utilizzo dell’algoritmo si traduce – secondo la Commissione – in una gestione dei lavoratori affidata quasi totalmente ai computer che assicurano processi di selezione e gestione del lavoro più efficaci poiché riducono drasticamente i tempi ed evitano l’intervento umano.
In proposito, un breve commento di chi scrive. Anche il luddismo si evolve a ridosso dell’evoluzione delle tecnologie.
Giuliano Cazzola