Serafino Negrelli – Docente di Sociologia del Lavoro e Relazioni Industriali nell’Università degli studi di Brescia
1. Le ricerche empiriche sulla flessibilità e le condizioni di lavoro
Le tre ricerche (1990, 1995, 2000) della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions sulle condizioni di lavoro nell’Ue hanno segnalato che non sono intervenuti miglioramenti significativi nei fattori di rischio fisico sul posto di lavoro. Anzi, esse registrano una più alta esposizione al rischio fisico (rumori, sostanze pericolose, trasporto carichi pesanti, posture scomode, stress e affaticamento complessivo) e una maggiore intensificazione del lavoro (ritmi elevati, tempi stretti, ripetitività, scarsa autonomia e controllo) per i lavoratori impiegati con contratti a termine o interinali, in forte crescita nell’ultimo decennio novanta, rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato[1].
Una ricerca ad hoc sulla flessibilità e le condizioni di lavoro, sempre condotta dalla European Foundation nell’Ue ha ampliato l’analisi, affiancando all’approccio tradizionale limitato alla rilevazione dell’impatto della flessibilità del lavoro sulle ‘condizioni pratiche nelle quali si lavora in uno specifico ambiente tecnologico ed organizzativo’ (working conditions) un approccio più orientato a verificare anche l’impatto sulle ‘regole e status secondo i quali i lavoratori sono impiegati, formati e retribuiti’ (employment conditions). Si sono così ottenuti risultati di ricerca empirica importanti per le future politiche di lavoro nell’Ue. Si è riscontrato, ad esempio, che gli effetti sulla esposizione ai rischi fisici e quelli sullo status occupazionale possono non andare nella stessa direzione. Inoltre, possono essere notate tendenze contraddittorie quali ad esempio l’apparente anomala combinazione di forme di job enrichment e di work intensification[2]. Tradizionalmente, la flessibilità funzionale del lavoro è stata collegata direttamente a migliori condizioni di lavoro poiché era percepita come opportunità di combinare le esigenze aziendali (produttività e qualità) con quelle dei lavoratori (migliori contenuti di lavoro e maggiore responsabilità). Le ricerche empiriche hanno invece sottolineato la coesistenza di tendenze ambigue quali il lavoro di gruppo o multi-skilling accompagnati da fenomeni di intensificazione e monotonia del lavoro[3]. Queste tendenze fanno emergere l’importanza della regolazione sociale concertata per gestire l’impatto della nuove forme di flessibilità del lavoro sulle condizioni di lavoro[4], come dimostrano peraltro le vicende sul mancato accordo per una direttiva europea sul lavoro interinale (vedi sotto).
La recente ricerca della European Foundation sul lavoro interinale in Europa[5] ha fatto tesoro di queste indicazioni emerse nei risultati empirici precedenti. In particolare, ha cercato di osservare la diffusione di questa forma di lavoro flessibile, allargando il campo di analisi agli aspetti qualitativi oltre che a quelli quantitativi.
2. Le rilevazioni quantitative sul lavoro interinale nell’Unione europea
Dal 1992 il numero di lavoratori interinali è raddoppiato negli stati membri dell’Ue, ma è aumentato di ben cinque volte in Danimarca, Italia e Svezia, seppure con diversità rilevate dalla ricerca empirica nel 15 paesi dell’Unione. Si tratta della maggior crescita tra tutte le forme di lavoro atipico. Secondo i dati Ciett (2000), i lavoratori interinali nell’Ue erano 2,2 milioni nel 1998 (dato medio giornaliero, ma 6 milioni in tutto il 1998).
Sono stati segnalati i molteplici problemi relativi alla validità delle statistiche sul lavoro interinale. Innanzitutto, vi è un problema concettuale, poiché non esiste come fenomeno legale ‘omogeneo’ nei vari paesi. Inoltre, è nota la difficoltà nella raccolta dei dati: la maggior parte delle informazioni non è disponibile presso gli istituti centrali e ufficiali di statistica. Infine, occorre affidarsi prevalentemente alle fonti offerte dalle organizzazioni nazionali di settore.
Se si osserva l’andamento del fenomeno negli ultimi dieci anni di formidabile crescita, si può notare comunque che tale fenomeno appare ormai quasi stabilizzato e non così esteso come spesso si tende a credere. Negli Stati Uniti, dove esistono le statistiche più affidabili e dove il lavoro interinale è diffuso da più tempo, i dati di fonte imprenditoriale segnalano una crescita dallo 0,5% sul totale dell’occupazione nel 1982 all’1,9% nel 1996; ma i dati di fonte governativa (Lsf) indicano un incremento più modesto dallo 0,5% allo 0,8%. Mentre secondo le stesse fonti imprenditoriali nel 2001, i lavoratori interinali americani sarebbero stati il 2,9%, ovvero 1 su 35 lavoratori totali.
Nell’Ue, la media giornaliera di coloro che hanno svolto lavoro interinale come attività principale nel 1999 era tra l’1,8 e i 2,2 milioni, ovvero tra l’1,2% e l’1,4% dell’occupazione totale (vedi tabella 13 nella ricerca citata, a cura di D. Storrie). La Francia, con 623 mila lavoratori interinali, ha fatto registrare la percentuale maggiore di diffusione nell’Ue (circa il 30%), seguita dal Regno Unito, con il 26,8% (557 mila, ma 254 mila secondo i dati della Lfs). L’Olanda ha fatto registrare invece la percentuale di maggiore intensità rispetto al totale nazionale dell’occupazione (4%), seguita dal Lussemburgo (3,5%), dalla stessa Francia (2,7%), Regno Unito (2,1%, ma 0,9% secondo la Lfs), Belgio (1,6%).
In Italia, la rilevazione si fermava allo 0,2% del totale dell’occupazione, con 31 mila lavoratori interinali, un dato però poco significativo a così breve distanza dalla nuova legge del 1997. Negli ultimi tre anni, sono stati forniti dati non sempre attendibili, tra 250 e 750 mila. I dati più recenti di fonte imprenditoriale indicano che i lavoratori interinali ‘equivalenti a lavoratori a tempo pieno’ sarebbero poco più di 82 mila, cioè lo 0,4% della popolazione attiva (fonte Confinterim, riportata da Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2002).
La rilevazione della European Foundation è importante anche per le indicazioni relative alle caratteristiche dei lavoratori interinali. Si tratta infatti di lavoratori ‘più giovani’ rispetto agli altri occupati, anche rispetto ai lavoratori a tempo determinato. Sono prevalentemente uomini (con l’eccezione dei paesi scandinavi). Ciò pone una questione rilevante alla quale la stessa ricerca non ha saputo rispondere e che richiede ulteriori verifiche ed approfondimenti: perché al lavoro interinale fanno ricorso soprattutto le imprese dell’industria manifatturiera (nella quali si concentra la forza lavoro maschile) e al lavoro a tempo determinato quelle dei servizi (dove prevalgono le donne)?
Resta alquanto limitato l’orientamento verso il lavoro più qualificato, cresce invece il coinvolgimento dei lavoratori stranieri immigrati. Spesso, gli studenti interessati (prevalentemente sotto i 25 anni) sono ancora coinvolti in qualche forma di programmi educativi (in Olanda il 41% dei giovani vive ancora in casa dei genitori).
3. Le ragioni economiche all’origine della rapida espansione negli ultimi anni novanta
La ‘diversificazione del rischio d’impresa’ resta senza dubbio una delle ragioni principali della diffusione del lavoro interinale in Europa, poiché le agenzie di lavoro interinale possono disporre di un ricco portafoglio di opportunità di impiego in più settori e aziende. Ma anche la ‘divisione del lavoro’, ovvero la possibilità da parte delle imprese utilizzatrici di esternalizzare le funzioni di reclutamento del personale, è una motivazione emersa in molti casi. Strettamente connessa a questa è la ‘discrezionalità’ consentita nell’uso dei servizi del lavoro solo quando serve e senza i relativi costi di aggiustamento. Infine, non può essere certo sottovalutata la funzione di job matching, ovvero del più efficiente scambio di informazioni tra lavoratori e imprese utilizzatrici garantito dalle agenzie di lavoro interinale che si sono di fatto conquistate sul campo il riconoscimento generale riguardo al ruolo svolto nei servizi di collocamento.
Le interviste alle aziende utilizzatrici hanno ampiamente confermato queste ragioni e queste importanti funzioni del lavoro interinale al quale hanno fatto prevalentemente ricorso per esigenze di: reclutamento di personale (11%), picchi imprevisti di produzione (21%), fluttuazioni produttive stagionali (23%), rimpiazzi (27%) (vedi tabella 7 nella ricerca citata).
Se da un lato il ricorso al lavoro interinale ha risposto a queste importanti esigenze aziendali, dall’altro lato ha dato però origine ad altri problemi, quali quelli riguardanti l’acquisizione e gli investimenti in capitale umano. I nuovi modelli produttivi richiedono infatti maggior coinvolgimento dei dipendenti, lavoro di gruppo, fiducia, più difficili da ottenere se i rapporti di lavoro tendono ad essere invece più instabili, incerti e a termine.
In particolare si assiste ad una minore attività di formazione per i lavoratori interinali rispetto agli altri lavoratori, proprio per le incertezze relative ai soggetti che dovrebbero svolgerla: le agenzie (con ridotte competenze settoriali specifiche) o le aziende utilizzatrici (scarsamente motivate a investire nella formazione di lavoratori non permanenti)? Le incertezze riguardano anche i soggetti finanziatori della formazione: i lavoratori, gli stati o le agenzie di lavoro interinale? Anche se la più recente formulazione proposta per la direttiva europea prevede che il costo della formazione non debba gravare sui lavoratori (vedi sotto), di fatto questi vedono la loro retribuzione ridotta anche quando sono le agenzie a dover pagare, a meno che queste ultime siano in grado di scaricare il costo sulle imprese utilizzatrici.
4. La regolazione sociale del lavoro interinale nell’Unione europea
I diversi contesti legali e istituzionali che caratterizzano i vari paesi dell’Unione hanno fortemente influenzato la regolazione sociale del lavoro interinale e quindi i relativi effetti sulle condizioni dei lavoratori.
I modelli prevalenti di regolazione sembrano essere almeno quattro, a seconda che la regolazione riguardi le agenzie di lavoro interinale, il lavoro interinale oppure entrambi.
Il modello continentale prevede una regolazione dettagliata sia delle agenzie che del lavoro, regola soprattutto la missione nell’azienda utilizzatrice più che il contratto di lavoro. Il lavoro interinale viene considerato una attività distinta dal resto del lavoro dipendente e la legislazione in questi paesi è certamente la più interventista nel panorama dell’Unione: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna). Appaiono peraltro evidenti fenomeni di non osservanza della legge.
Il modello anglosassone (Regno Unito, Irlanda) si caratterizza invece per la limitata legislazione relativa al lavoro interinale. Di fatto esiste una certa deregolazione sia per le agenzie che per il lavoro, con bassi livelli di protezione per quest’ultimo.
Il modello scandinavo (Danimarca, Finlandia, Svezia) non prevede alcuna regolazione per le agenzie e le missioni nelle aziende utilizzatrici, registra quindi la legislazione meno interventista, ma assicura una elevata protezione del lavoro (in Svezia, ad esempio, la contrattazione collettiva copre l’intero settore, in particolare sulle paghe).
Il modello olandese costituisce un modello a sé, almeno a partire dalla legislazione del 1999 che non prevede regolazione per le agenzie bensì per i lavoratori interinali dopo un periodo transitorio di 26 settimane. In particolare, le agenzie dopo tale periodo sono obbligate ad assumere i lavoratori a tempo indeterminato[6].
Più difficile risulta inserire in uno di questi modelli gli altri paesi dell’Unione, Grecia e Austria, poiché come in quest’ultimo caso prevalgono orientamenti di deregolazione delle agenzie insieme a contratti specifici di impiego per i lavoratori interinali.
Nel complesso, i cambiamenti frequenti del posto di lavoro e il doppio rapporto di impiego rendono alquanto difficile nella pratica la tutela dei diritti di rappresentanza collettiva. In tutti i paesi infatti la contrattazione collettiva nell’ambito del lavoro interinale resta poco sviluppata, con le eccezioni dell’Olanda e della Svezia, ma in parte anche della Spagna e dell’Italia, per lo sviluppo più recente del fenomeno. Sono considerazioni di carattere generale che richiederebbero importanti verifiche, proprio per la relativa scarsa disponibilità dei dati empirici.
5. Gli effetti sulle condizioni di lavoro interinale
Il dualismo nelle responsabilità delle imprese, suddivise tra le aziende responsabili per la retribuzione dei lavoratori (le agenzie) e quelle in possesso dell’autorità sul lavoro (le aziende utilizzatrici), è all’origine di molte conseguenze sulle condizioni di lavoro.
Innanzitutto, emerge la maggiore incertezza dello status occupazionale del lavoratore interinale rispetto agli altri lavoratori dipendenti accanto ai quali svolge normalmente i suoi compiti. Anche se, sotto il profilo legale, il suo contratto può essere a tempo indeterminato, di fatto ciò non avviene quasi mai (ad eccezione, come si è visto, del caso olandese) e quindi è più insicuro dello stesso contratto a tempo determinato (che più spesso si trasforma in contratto permanente), come dimostrano ampiamente le ricerche empiriche condotte nei paesi dell’Unione.
Ma anche riguardo alle condizioni normative, garantite agli altri lavoratori dai risultati della contrattazione collettiva, il lavoratore interinale è fortemente penalizzato. E’ normalmente retribuito con una paga inferiore alla media (se non altro per il fatto che la sua anzianità effettiva non viene presa in considerazione), è interessato da livelli minori di attività formativa, ha orari di lavoro più gravosi e complicati con effetti negativi sulla sua qualità della vita.
Soprattutto, si rilevano effetti particolarmente pesanti sulla salute e l’esposizione ai rischi fisici, con un maggior numero di incidenti sul lavoro. Ciò deriva in particolar modo dalle incertezze relative alle responsabilità effettive per quanto riguarda la sicurezza e la stessa formazione sull’ambiente, incertezze ricorrenti come si è visto in un rapporto ‘triangolare’ di lavoro (tra agenzia, lavoratore e impresa utilizzatrice) così anomalo per le relazioni industriali, ma anche per il diritto, data la coesistenza di un contratto di lavoro (tra lavoratore e agenzia) e di un contratto commerciale (tra agenzia e impresa utilizzatrice.
La volatilità del settore per ragioni economiche e istituzionali è dunque la causa principale di gran parte delle conseguenze negative sulle condizioni di lavoro, sia come peggioramento dello status occupazionale che come maggiore esposizione ai rischi fisici.
Infine, non devono essere sottovalutati gli effetti di progressiva erosione degli standard di protezione sociale dei lavoratori nel loro complesso e non solo dei lavoratori interinali. Il fallimento del dialogo sociale europeo che ha impedito di pervenire ad una direttiva europea sul lavoro interinale è stato provocato essenzialmente dal non accordo sulla possibilità di eguale trattamento delle condizioni di lavoro tra i lavoratori interinali e i lavoratori dipendenti dell’impresa utilizzatrice (vedi sotto).
Si tratta di un punto decisivo per lo sviluppo del lavoro interinale e in particolare per il possibile ruolo integrativo del lavoro interinale rispetto al mercato del lavoro più in generale. Prevale una certa forte divisione tra coloro che sostengono la tesi che il lavoro interinale costituisca di fatto una ‘trappola’ della precarietà (ovvero una porta girevole dalla quale non si esce mai) e coloro per i quali invece può rappresentare un ‘ponte’ verso il lavoro stabile e a tempo indeterminato. I risultati delle rilevazioni empiriche finora condotte nell’Unione sembrano avvalorare la tesi della trap piuttosto che del bridge ma un accordo per la direttiva europea potrebbe contribuire a favorire un diverso orientamento.
6. Le tormentate vicende della direttiva europea sul lavoro interinale
Se il lavoro interinale non viene svolto nel rispetto degli stessi diritti sindacali e delle medesime condizioni di lavoro previsti per gli altri lavoratori dipendenti, resterà invischiato nella trappola della precarietà, con molti problemi rispetto ai suoi sviluppi futuri. Se infatti emerge una certa tendenza alla sua stabilizzazione come fenomeno ‘quantitativo’, si attende ancora una sua ‘normalizzazione’ anche sotto il profilo ‘qualitativo’, dello status occupazionale, dei diritti sindacali e contrattuali.
Per tale normalizzazione appare essenziale, almeno quale punto di partenza, una direttiva europea sul lavoro interinale alla quale finora non è stato possibile pervenire. Come è noto, il dialogo sociale su questa direttiva si è interrotto nel maggio 2001, proprio sulla questione della definizione di ‘comparabilità’ dei lavoratori interinali rispetto agli altri lavoratori delle imprese utilizzatrici. L’organizzazione di rappresentanza degli imprenditori (Unice) sosteneva infatti che la possibilità del lavoratore interinale di ottenere un contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’agenzia (come avviene in alcuni paesi) renderebbe ingiustificata la pretesa di far riferimento ai lavoratori dell’impresa utilizzatrice. L’organizzazione di rappresentanza dei sindacati dei lavoratori (Etuc) riteneva invece cruciale tale riferimento, in particolare per la retribuzione, l’orario di lavoro e la salute, poiché il lavoratore interinale è collocato a disposizione della azienda utilizzatrice. Si può ben comprendere dunque come la natura complessa e ‘triangolare’ del rapporto di impiego abbia reso difficile fin dall’inizio questo negoziato, allontanando così l’obiettivo di regolazione di questa terza forma di lavoro ‘atipico’, previsto insieme a quelli relativi alle altre due forme, il lavoro part-time (accordo del giugno 1997 e direttiva del 15 dicembre 1997) e il lavoro a tempo determinato (accordo il 14 gennaio 1999 e direttiva il 28 giugno 1999), sui quali la Commissione europea si era impegnata fin dal settembre 1995.
Alcuni passi avanti, dopo la rottura del dialogo sociale del maggio 2001, si sono però registrati. Importante è stata ad esempio la dichiarazione congiunta sottoscritta l’8 ottobre 2001 da Euro-Ciett (il comitato europeo della Confederazione internazionale delle imprese di lavoro interinale) e da Uni-Europa (l’organizzazione europea della Union Network International, che raggruppa i sindacati dei lavoratori dei servizi, dei tecnici e degli impiegati). Dai 13 obiettivi fissati in tale dichiarazione si può ricavare infatti un certo consenso sulla necessità per i lavoratori interinali di un eguale trattamento, dei diritti sindacali, della protezione legale, dell’accesso alla formazione e del divieto di far pagare agli stessi lavoratori quote per i servizi delle agenzie.
La proposta di una nuova direttiva sul lavoro interinale da parte della Commissione europea nel marzo 2002 costituisce un ulteriore importante tentativo di sbloccare il negoziato. Sul punto più contestato, la comparabilità del lavoratore interinale rispetto ai lavoratori dell’impresa utilizzatrice, l’Unice si è mostrata solo in parte più possibilista, accettando il principio di non discriminazione ma proponendo che siano i singoli stati membri a decidere chi sia il ‘lavoratore di riferimento’, quello alle dipendenze dell’agenzia o quello alle dipendenze dell’impresa utilizzatrice.
Gli emendamenti alla proposta di direttiva della Commissione europea che sono stati discussi nel corso di tutto il 2002 non sembrano però avere ancora sciolto i punti più controversi. Di fatto, il non accordo deriva non solo dai conflitti tra le diverse organizzazioni di rappresentanza degli interessi del capitale e del lavoro ma anche tra i diversi stati membri che come si è visto fanno riferimento a modelli di regolazione sociale in forte contrasto tra loro. In prospettiva, si tratta dunque di discutere innanzitutto sul modello di regolazione del lavoro interinale più adeguato per l’Unione europea, seguendo l’esempio del caso olandese che proprio mediante una ampia riflessione pubblica è pervenuto al modello per ora più innovativo, oltre che largamente concertato tra gli attori sociali.
[1] D. Merllié, P. Paoli, Ten Years of Working Conditions in the European Union, Dublin, 2001; Id.,Third European Survey on Working Conditions 2000, Dublin 2001 (www.eurofound.eu.int).
[2] A. Goudwaard, M. de Nanteuil (eds.), Flexibility and Working Conditions: a Qualitative and Comparative Study in Seven EU Member States, Dublin, 2000.
[3] S. Negrelli, V. Fortunato, E. Rapisardi, National Report: Italy, in Goudwaard, de Nanteuil, eds., 2000, cit.
[4] S. Negrelli. ‘La sfida della flessibilità nei rapporti di lavoro’, in D. Boldizzoni, L. Manzolini, (a cura di), Creare valore con le risorse umane, Guerini, Milano, 2000.
[5] D. Storrie, Temporary Agency Work in the European Union, Dublin 2002.
[6] Per l’approfondimento dell’importante caso olandese si rinvia al citato rapporto di D. Storrie.