L’azienda stipula con il lavoratore un contratto di lavoro a tempo determinato; alla scadenza del termine, gli comunica il licenziamento con la cessazione di ogni attività. Il lavoratore chiede e ottiene dal Tribunale la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, con la sua riammissione in servizio e con il risarcimento del danno. Il Tribunale, con l’obbligo della riassunzione, ha riconosciuto al lavoratore il diritto a percepire la retribuzione dalla data della messa in mora dell’azienda fino alla data di ripristino del rapporto di lavoro.
La Corte di Appello di Milano ha riformato parzialmente la sentenza perché ha riconosciuto al lavoratore l’indennità risarcitoria nella misura di cinque mensilità e non la maggior somma rappresentata dalla retribuzione maturata dalla data della messa in mora dell’azienda fino al ripristino del rapporto di lavoro. Riformando la sentenza, la Corte di Appello ha condannato il lavoratore a restituire all’azienda le somme che aveva percepito in più rispetto a quanto da essa statuito.
Il lavoratore ha proposto impugnazione contro la sentenza della Corte di Appello avanti la Corte di Cassazione, lamentando l’erroneità della quantificazione dell’importo da restituire all’azienda perché la Corte ha confuso quanto dovuto dall’azienda a titolo di indennità risarcitoria maturata prima della pronuncia della sentenza, che ha disposto la sua riammissione in servizio, e quanto dovutogli dopo detta pronuncia a titolo di retribuzione, con l’obbligo di riammissione in servizio.
La Corte di Cassazione ha accolto le doglianze del lavoratore. Con la riforma della sentenza impugnata ha avuto modo così di ribadire che: “Costituisce principio pacifico quello secondo cui, in tema di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, l’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde perceptum”), trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio” che va dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione”. Cassazione sez. Lavoro n. 5205 pubblicata il 27/02/2024.
Nel caso giuridico esaminato, siamo in presenza del cosiddetto danno punitivo: l’azienda è punita con l’obbligo della corresponsione dell’indennità risarcitoria, da 2,5 a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita, che è commisurata al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti prescindendo del tutto dai mesi di effettiva disoccupazione e dalla retribuzione eventualmente persa dal lavoratore interessato.
Biagio Cartillone