Si nota un aspetto paradossale nella tragedia che ha colpito l’isola di Ischia ed ha provocato ancora una volta vittime. La polemica immediata sulle responsabilità del governo Conte circa la velocizzazione delle procedure per risolvere le pratiche dei condoni, il silenzio delle forze politiche sulla necessità di dare alla messa in sicurezza dei territori italiani finalmente quella priorità che finora è mancata.
Intendiamoci, il governo Conte ha le sue responsabilità vista la conclamata opposizione ai condoni, e comunque poteva almeno “sbirciare” nella situazione di Ischia per valutare la persistenza dei rischi esistenti e, purtroppo, di quelli potenzialmente futuri. Non l’ha fatto in coerenza con quella superficialità che ha fatto preferire gli slogan ai programmi, le denunce alle scelte di prospettiva, l’attribuzione di colpe del passato alle assunzioni di responsabilità presenti e future.
In realtà però la sensazione più desolante che si ricava dalla frana ischitana è che ogni volta di fronte alle calamità naturali si è praticamente all’anno zero.
Si dovrebbe cogliere la dura lezione della vicenda di Ischia per ragionare su cosa voglia dire oggi realmente ambientalismo. Finora l’impressione è quella di aver assistito prevalentemente a forzature ideologiche, quando sarebbe il caso di comprendere che le crociate sul CO2 possono benissimo lasciare il passo alla vera urgenza che è quella di mettere in sicurezza il territorio. Del resto, non giova alle tesi ambientaliste passare per
essere portatrici di un messaggio oltranzista che non tiene conto di nulla se non del raggiungimento dei propri obiettivi.
La cultura ambientale non può più non tener conto invece di fattori con i quali si deve fare i conti. In primo luogo l’adattamento ai fenomeni climatici che presuppone strategie politiche ed economiche di lungo periodo per evitare che le calamità naturali inesorabilmente distruggano vite, risorse economiche e costino assai di più di quello che costerebbe una opera di prevenzione.
Adattarsi ai cambiamenti climatici non è una bestemmia, è solo agire con buon senso, tenendo conto dell’evoluzione della natura che non fa sconti se viene ignorata, ma può essere governata se ci si munisce di politiche appropriate.
Altrimenti non si va oltre le lamentele, qualche protesta di piazza, sporadiche decisioni di intervento che non possono bastare specie quando si manifesta una emergenza.
E’ fondamentale cambiare radicalmente atteggiamento. Classi dirigenti responsabili dovrebbero adottare uno schema di intervento diverso: impostare con la collaborazione della scienza e delle forze sociali un programma pluriennale di riassetto territoriale, con scadenze e risorse precise, sottratte alla competizione politica e con una cabina di regia in grado di evitare ritardi od omissioni. Naturalmente sarebbe assai utile il completamento del catasto, oggi una riforma vista più per rastrellare denaro che per avere una mappa precisa degli abusi. Ed anche in questo caso occorrerebbe mutare atteggiamento.
Infine è importante che le amministrazioni comunali siano liberate da quelle pressioni, anche dettate da problemi economici, che al dunque le rendono impossibilitate ad impedire di costruire là dove i pericoli sono in realtà disastri annunciati.
Insomma si passi dalle ossessioni che si risolvono con gli anatemi sul CO2, alla realizzazione di una cultura ambientalista in grado di recuperare i territori e con tale azione di favorire tecnologie nuove, lavoro qualitativamente importante, opportunità di far nascere attività imprenditoriali non occasionali come è stata la corsa al bonus 110% ma radicate in un processo di crescita al tempo stesso imprenditoriale, economico e ambientale.
In questo contesto se c’è una riflessione da fare sulle risorse del PNRR questo sarebbe il terreno ideale e necessario per compierla. Invece di veicolare quelle risorse verso lidi più di consenso che di modernizzazione, potrebbe essere l’inizio di una svolta il considerare la destinazione di una parte importante dei fondi europei per rimettere in sesto buona parte del nostro Paese.
E si può fare: il Mose nella laguna di Venezia ne è la riprova. Un progetto tormentato, una realizzazione con non poche ombre, ma alla fine i risultati si vedono ed i margini di rischio sono notevolmente diminuiti. Ci vuole una nuova progettualità che non sia schiava dell’attuale modo di fare politica. Per il mondo del lavoro scelte innovative di questo tipo sarebbero fondamentali sia per le politiche industriali che per il percorso professionale di tanti lavoratori in diversi settori, anche in quelli che rischiano il declino. Mai come in questo caso il territorio è un bene comune che può produrre benefici per tutti se trattato come merita. Segnali in questa direzione non se vedono finora; le forze che si richiamano all’ambientalismo non sembrano in grado di liberarsi dei loro slogan che peraltro la grave crisi energetica ha ridotto a dei simulacri inutili. La politica pare orientata verso direzioni che non consentono di essere fiduciosi. Vi è un ruolo importante per le parti sociali che possono fornire piattaforme strategiche utili ad imporre il problema della sicurezza ambientale come è stato ad esempio per la questione grave della sicurezza sul lavoro.
Molto potrebbe venire dall’impegno dei giovani, ai quali però non vanno indirizzati messaggi semplicistici bensì nelle scuole vanno formati ad una cultura dell’ambiente complessiva e razionale.
Difficile pensare che dopo Ischia torni il sereno a tempo indeterminato. Necessario è ribadire però che nel modo attuale non si va da nessuna parte, se non ripetere gli stessi errori all’infinito. Una scelta che non andrebbe neppure prefigurata ma bandita senza alcuna remora.
Paolo Pirani
Consigliere CNEL