L’epidemia da virus Sars Cov-2, responsabile della malattia COVID 19, ha profondamente cambiato la nostra vita, le nostre abitudini e forse anche il nostro “esserci nel mondo”.
E’ oggi il tempo immobile dell’attesa e dell’incertezza, perché nessuno può dire quando le misure di distanziamento sociale, che a Wuhan hanno bloccato la diffusione del contagio, saranno in grado di riconsegnarci alla vita di prima.
E’ anche il tempo dell’isolamento in cui le distanze delle nostra prossemica abituale si dilatano e ci lasciano inevitabilmente più soli e circondati dal vuoto.
E’ il nostro “progetto” di vita ad essere più fragile perché “gettati” come direbbe Heidegger in un mondo diventato improvvisamente più ostile popolato com’è da un nemico invisibile che viaggia e si trasmette sulle gambe dei vicini, degli amici, dei familiari e di tutti quelli, a noi cari, da cui non ce lo aspetteremmo.
Questo tempo dell’epidemia ha cambiato le nostre abitudini ma anche la nostra percezione di una serie di “oggetti” investiti oggi di una nuova luce. E’ il momento in cui si riscopre lo Stato e in cui il mercato evidenza le sue drammatiche contraddizioni e carenze.
Gli Stati nazionali hanno riserve strategiche di barili di petrolio, di lingotti d’oro chiusi nei forzieri della Banca d’Italia e, forse, di virus del vaiolo congelato e di barili di antrace da impiegare in una eventuale guerra batteriologica, ma non hanno stoccato mascherine, disinfettanti e apparecchi medicali come i respiratori.
Le leggi del mercato non consentivano una produzione di tali presidi che non fosse al massimo ribasso e noi, schiacciati dalla ricardiana legge dei vantaggi comparati, ne abbiamo delegato la produzione a Cina, Brasile, e Turchia dando loro un monopolio assoluto che oggi ci si rivolta drammaticamente contro.
Il nostro servizio nazionale è stato umiliato, desertificato, reso progressivamente più debole nella indifferenza dei governi succedutisi in questi ultimi 15 anni. Per anni si è valorizzato il privato lodandone efficienza e duttilità e rinunciando a potenziare le strutture sanitarie di gran parte dell’Italia centro meridionale che oggi sono impotenti di fronte al dilagare dell’infezione.
Oggi si riscopre l’importanza di avere una organizzazione sanitaria nazionale, pubblica, unitaria e universalistica fatta di strutture efficienti, adeguatamente attrezzate e distribuite su tutto il territorio nazionale. Parole vuote diventano, federalismo, regionalizzazione, autonomia differenziata, sussidiarietà del privato perché in questa guerra la logica è drammaticamente binaria: o si vince o si muore tutti insieme e si vince solo se lo Stato dispiega la sua forza: costi quel che costa come ora si sente ripetere dal presidente Conte.
Per anni abbiamo visto i medici (e gli infermieri) come una massa di profittatori che facevano i soldi sulla nostra pelle e che dovevano essere inseguiti nelle loro responsabilità grazie anche alla stola di avvocati pronti a intentare causa, senza costi per il paziente, per episodi veri o presunti di malpractice
Tutti quanti abbiamo udito fino alla noia gli annunci pubblicitari su giornali, radio e televisioni di questi solerti difensori dei diritti violati dei malati che promettevano risarcimenti, condanne penali e nessuna conseguenza nel caso di cause temerarie.
Oggi si scopre che medici e infermieri lavorano senza sosta fino allo sfinimento fisico, pagando un prezzo enorme in termini di salute personale per curare tutti senza differenza alcuna di reddito e cittadinanza; soldati a mani nude, mal pagati e fino a ieri vilipesi contro un nemico invisibile che non risparmia nessuno accanendosi sui più deboli e sui più esposti.
Questo stato di assedio in cui l’epidemia non lascia ancora intravedere la luce della fine e che potrebbe riproporsi anche successivamente quando gli attuali focolai saranno spenti, finirà quando la scienza realizzerà un vaccino valido a darci una stabile immunità.
L’epidemia ha fatto riscoprire il valore delle competenze, della scienza, con tutti i limiti che sappiamo, e ha fatto piazza pulita dei cialtroni che per anni, foraggiati anche dal precedente governo, hanno demonizzato i vaccini, i farmaci e la medicina occidentale.
Si riscopre l’importanza della ricerca biomedica, del sapere scientifico, della formazione del personale e della collaborazione scientifica tra tutti i paesi, tutti coinvolti in questa guerra senza confini.
Questa drammatica epidemia dunque è anche un’occasione per un mutamento straordinario del linguaggio politico che per anni si è nutrito di pregiudizi contro gli immigrati portatori di malattie e contro l’invasione dei cinesi, buoni solo a taroccare marchi di qualità. Oggi si scopre, con tutti i limiti che ben conosciamo in termini di diritti individuali, la straordinaria capacità organizzativa della repubblica Popolare Cinese e l’incredibile senso di comunità del suo popolo.
L’epidemia delinea dunque una nuova scala valoriale in cui collocare i nostri oggetti del mondo delineando nuove priorità e rendendo obsolete le semplificazioni di sovranisti e complottisti a buon mercato.
Quando l’epidemia finirà, nulla sarà come prima. Il mondo sarà meno popolato perché i più deboli, come sempre è accaduto, non resisteranno alla forza del male. Bisognerà rimboccarsi le maniche e la rinascita sarà possibile solo grazie all’intervento dello Stato e, nel nostro caso, di quel gruppo di stati che costituiscono l’Europa.
La speranza è riuscire a fare tesoro degli avvenimenti per ripartire con questa nuova consapevolezza che l’epidemia ci sbatte in faccia duramente: è stato un errore mercificare la salute e ritenere che la privatizzazione dei servizi essenziali rappresentasse un valore aggiunto.
Un errore che per il bene di tutti non dovrà più essere replicato.
Roberto Polillo