Siamo dentro una crisi difficile da “leggere”, sistemica, complessa, a più facce. Una crisi certamente economico – finanziaria, ma ancor più culturale, etica e valoriale che non salva nessuno: la politica, la società, le imprese, il mondo del lavoro, le rappresentanze. Una crisi che ci costringe a una rilettura profonda, prima di tutto di noi stessi, in quanto classe dirigente, per ritrovare la capacità di guida di una società in profondo mutamento.
Non si può dare fiato alla tanto auspicata ripresa, innovare il sistema politico – istituzionale ed economico, avviare le riforme di cui il Paese ha estremo bisogno, senza avviare, per quello che ci compete, un’analisi introspettiva, che tenti di rispondere ad alcune domande essenziali: chi è il dirigente oggi, quali aspettative nutre, quali nuove responsabilità ha di fronte, quale strada deve percorrere per riaffermare quella posizione di centralità che gli spetta nell’ambito delle organizzazioni produttive ma anche della società.
Siamo tutti più a rischio, questo non deve scoraggiarci, deve semmai far comprendere che stiamo vivendo un processo di “mutazione antropologica”, che sta trasformando il nostro percorso esistenziale, la nostra percezione del lavoro e della società. Non c’è niente di astrattamente filosofico in questi fenomeni, piuttosto parliamo di processi che riguardano la concretezza della nostra attività quotidiana, che stiamo continuando a portare avanti a dispetto dei tanti profeti di sventura che vorrebbero paralizzare ogni divenire, per conservare il potere e cristallizzare la forza di quelle “oligarchie autoreferenziali”, che dobbiamo spezzare, perché fuori dal tempo.
Affrontare il tema dell’identità e della funzione dirigenziale, significa riflettere anche sul nostro capitalismo, cercando di comprendere come possa e debba evolvere attraverso una contaminazione e una sintesi tra la cultura imprenditoriale e manageriale. Cruciale diventa, in quest’ottica, la selezione della classe dirigente, una selezione che certamente vedrà ancora nel rapporto fiduciario un elemento importante, ma che di questo aspetto non può più accontentarsi.
Federmanager ha recentemente invitato Confindustria e Confapi ad una riflessione congiunta sul ruolo manageriale e sui tratti distintivi. Peraltro, si tende troppo spesso a confondere una piccolissima enclave di top manager/imprenditori con l’intera categoria, si generalizza con superficialità, puntando l’attenzione su retribuzioni eclatanti, spesso sganciate dai reali risultati conseguiti. La categoria non si identifica con questi casi; se non c’è conoscenza corretta, questa immagine distorta rischia di danneggiarci, appannando tutti i fattori critici di successo che la dirigenza è in grado di incarnare ed esprimere. Una nuova stagione può cominciare a partire dalla conoscenza e dal dialogo responsabile tra la parti sociali e gli attori politici.
Un punto di inizio… “il lavoro umano”
In questa fase difficile per la storia d’Italia e d’Europa torna di attualità l’insegnamento di un grande storico del sindacato che ha vissuto gli anni del conflitto e del dopoguerra, come Vittorio Foa. Nel Cavallo e la Torre scrive: “Il lavoro è sempre più legato al sapere, alla formazione di una capacità di muoversi nel futuro, alla formazione di tutte le età e di tutti i tempi. Per capire il nostro tempo abbiamo bisogno di un punto di partenza, questo punto di partenza è il lavoro umano”. Questa affermazione che ha una chiarezza cristallina, fa emergere chiaramente la missione del dirigente, che ha il compito di creare le condizioni di armonia, di confronto, di motivazione nelle organizzazioni perché il lavoro possa diventare quella palestra di libertà e di realizzazione, capace di far crescere l’uomo e il professionista.
Notker Wolf, Abate Primate dell’ordine dei benedettini, ha offerto una testimonianza toccante in occasione dell’Assemblea di Federmanager che si è svolta recentemente a Treviso. Lo studioso si è soffermato sulle qualità del manager e sulla natura della leadership: “Le qualità dirigenziali – ha ricordato – non possono sostituire la competenza professionale ma le due formano un tutt’uno e si incontrano laddove un dirigente ha la capacità di vedere al di là del proprio naso. Non si accontenta che tutto funzioni senza intoppi.. sviluppa visioni, che non sono sogni o utopie, ma progetti fattibili, reali, adatti a suscitare forze ed entusiasmo. Se le visioni hanno assunto da noi le connotazioni dell’utopia, ciò è avvenuto perché impera la mediocrità. E’ straordinariamente arricchente conoscere un individuo che abbia visioni, e confrontarsi non tanto con la persona, ma con i suoi pensieri…”. Quella scattata da Wolf è un’istantanea straordinariamente fedele, rispetto a quello che è avvenuto in Italia nell’ultimo ventennio. Abbiamo dimenticato, assumendo atteggiamenti remissivi quando non “riluttanti”, che solo il dirigente che ha costruito un progetto, una visione può essere “la centrale energetica dell’impresa” a condizione però, lo precisa lo stesso teologo bavarese, “che si impegni a perseguire le sue idee non dietro la porta chiusa dell’ufficio, perché una visione si può mantenere in vita solo quando viene condivisa da molti”. Siamo evidentemente di fronte a delle questioni profonde, che hanno a che fare con la legittimità e il ruolo sociale del dirigente. Nella cultura d’impresa che va affermandosi, il dirigente non può più permettersi di pensare che bastino i risultati a strettissimo termine, senza prospettiva né visione, a qualificare il suo operato.
L’indagine di Federmanager
L’indagine che Federmanager ha concluso in questi giorni, in funzione della prossima tornata contrattuale, conferma la lettura di Wolf. Dalle prime analisi delle risposte, che riguardano un campione di 1529 intervistati, abbiamo registrato una concezione alta del ruolo manageriale. Per il 90% degli interpellati il fattore distintivo non è dato dalla leva retributiva, quanto dal “potere effettuale”, dalla capacità di influenza e di coinvolgimento nelle strategie d’impresa, dalla partecipazione alle decisioni aziendali; dall’alto livello delle deleghe e delle procure.
Si registra un’ altissima disponibilità dei dirigenti a sottoscrivere all’atto della nomina un codice valoriale di riferimento e nel contempo a partecipare a corsi formativi propedeutici che abbiano il vero centro di gravità nelle soft skills, che definiscano i tratti valoriali del ruolo. Si potrebbe affermare che stiamo tornando ad una concezione “elitaria” del ruolo manageriale, intesa nel senso più nobile del termine. Non bastano le connotazioni del “professional” per definire il dirigente che opera nella complessità socio – tecnologica in cui siamo immersi. “L’esempio che il dirigente deve saper dare – commenta Wolf nel saggio “L’arte di dirigere le persone” – deve partire dal coraggio e da una esperienza di vita per diventare un modello di forza rassicurante e nello stesso tempo trainante. Chi non si risparmia, non evita conflitti, e persegue con energia i suoi progetti acquistando il rispetto dei propri collaboratori. Il prendere sul serio la propria funzione non è solo questione di morale personale, ma un aspetto decisivo di un’accorta direzione del personale…”.
Questo non significa negare che siamo in una fase in cui occorre operare una sintesi tra le due anime che connotano la categoria: l’anima più tradizionale, alla ricerca delle tutele, della protezione e una seconda anima che, altrettanto legittimamente, chiede una rappresentanza più di tipo professionale, sociale e politica, fondata su networking, alta formazione e creazione di nuovi servizi e opportunità sul mercato del lavoro.
Cambia il ruolo della rappresentanza
L’articolata prospettiva che se ne ricava travalica i vecchi steccati entro cui eravamo abituati a collocare il management che oggi esprime attese di rappresentanza molto diverse dal passato, più evolute e sfidanti: formazione, bilancio delle competenze, valorizzazione del ruolo, riorientamento professionale, sostegno alla ricollocazione, modelli retributivi in cui la parte variabile giochi un ruolo importante ma si basi su trasparenza e coinvolgimento, sono le diverse voci di una richiesta di impegno che stanno acquistando sempre più peso rispetto alle domande classiche, anche se non meno importanti, che riguardano il welfare classico, il livello retributivo garantito, le tutele normative e assicurative.
La sfida che si pone dinanzi a noi ha una doppia valenza: culturale e negoziale e riguarda sia gli ambiti di rappresentanza dei dirigenti e del sistema delle imprese. Il salto di prospettiva che viene richiesto è difficile ma obbligato. Affrontare un tema di così vasta portata significa anche aprire un confronto, come per altro stiamo facendo, con il sistema delle imprese familiari, ancora troppo chiuse rispetto all’affermazione di un ruolo manageriale che o è negato o risulta schiacciato dal “peso” della famiglia, quando non marginalizzato in ruoli secondari.
La Federazione ha colto (e forse anticipato) i segnali di mutamento che la categoria sta manifestando. L’iniziativa che ha portato alla nascita di Prioritalia (di cui siamo stati protagonisti), si è fatta interprete sin dall’inizio di un’esigenza sempre più diffusa, sentita non solo dalla nostra categoria, ma dal tutto il Paese : il bisogno di dare spazio a nuove voci, a idee originali, capaci di esprimere un profilo istituzionale alto, fondato sui principi di un’etica pubblica condivisa, che è l’unica arma di difesa contro “I nemici intimi della democrazia”. Cercheremo di contaminare i partiti e le forze politiche dei valori manageriali, spingendoli ad accettare la sfida di una profonda palingenesi, senza di cui, ne abbiamo avuto recente dimostrazione, verranno spazzati dalla storia e dal prepotente ritmo di un’evoluzione sociale ed economica che di certo non aspetta il “passo lento” dell’ottusità e dell’arretratezza. I nostri sogni ed i nostri obiettivi sono intimamente legati a questa visione politica.
di Giorgio Ambrogioni