Franco ha trent’anni, da nove lavora per Vodafone, settore call center. Cercando casa, a Catania, gli è capitato di sentirsi rifiutare un appartamento con queste parole: “Mi dispiace, ma non affittiamo a precari”. Franco è tutt’altro che precario, ha un contratto a tempo indeterminato e il suo stipendio è più che decente: 1.500 euro netti al mese, cui si aggiunge il premio sui risultati che viene erogato ogni tre mesi: altri 2-300 euro. “E lo prendiamo sempre – mi spiega – perché siamo bravi e gli obiettivi li raggiungiamo senza problemi”. L’equivoco di cui è vittima è frutto delle molte contraddizioni di un mondo del lavoro dove il termine “call center'” è ormai diventato sinonimo di precarietà, povertà, futuro senza speranze. Un fenomeno sociale, ma anche culturale, indotto da film, libri, inchieste che hanno ben documentato la realtà senza orizzonte del precario tipo; il cui habitat ideale è quel non – luogo dove la vita degli altri corre sul filo e quella di chi ci lavora, invece, si ferma.
Dietro queste rappresentazioni tuttavia c’è anche una (triste) realtà quotidiana, fatta di fallimenti, cessioni rami d’azienda, società fantasma, zeppe di mano d’opera a basso costo, usa e getta. Basta dare un’occhiata alla situazione generale dei call center in Italia per avere un’idea del problema. In totale gli addetti del settore sono circa 50 mila, sparsi in circa 60 aziende di varie dimensioni. E’ un mondo dove c’è un po’ di tutto: a fianco ad aziende serie convivono imprese che talvolta, come nel caso Omega-Eutelia, finiscono addirittura nel mirino di inchieste giudiziarie. Quello dei call center è un settore dove è molto facile entrare e ancor più facile uscire: aprendo e chiudendo un’azienda nel giro di un paio di anni, o trasferendola altrove rispetto all’Italia, puntando su paesi dove le paghe siano ancora più basse e i vincoli ancora minori.
Anche da questo dipende, in buona parte, la pessima reputazione dei call center; e la diffidenza del padrone di casa di Franco a concedergli in affitto il proprio appartamento.
Tuttavia, esiste anche un’altra faccia della stessa medaglia, fatta di imprese nelle quali il termine call center non evoca immediatamente visioni negative. In realtà quello dei servizi telefonici è un mondo in evoluzione, dove molte cose stanno cambiando, a partire dalle condizioni di lavoro. Ma da cosa dipende la qualità del lavoro in un call center? Un elemento, in particolare, è decisivo: e cioè quanto i risultati dell’azienda cui fa capo sono legati alla professionalità delle persone che vi lavorano. Nel caso di Vodafone, datore di lavoro di Franco, il collegamento è diretto: il buon esito di una telefonata può fare la differenza tra un cliente acquistato, o tenuto, e un cliente perso. Il che, in un settore ad alta concorrenza come la telefonia, è decisamente importante.
Proprio qui sta la differenza. I casi che abbiamo elencato sopra riguardano aziende che forniscono servizi ad altre aziende; e lo fanno per lo più utilizzando lavoro a progetto, in modo da abbattere al massimo i costi di produzione. Diverso è quando le aziende assumono a tempo indeterminato, come nel caso di Franco a Vodafone. In questo caso, il lavoratore diventa per l’azienda che lo assume un ‘’investimento”, sul quale vengono impegnate risorse e formazione. Ovvio che poi la prestazione sia migliore: in termini di qualità professionale, certo, ma anche per un maggior coinvolgimento e motivazione del lavoratore.
Naturalmente, tutto questo ha dei costi; e troppo spesso le imprese serie soffrono la concorrenza di quelle più eticamente disinvolte. Ma è chiaro che prima o dopo occorrerà trovare una soluzione basica che dia risposte a tutto quel mondo che vive tra cuffie e microfoni: un comparto sempre più centrale, da cui si dipana il filo che tiene insieme clienti e aziende, utenti e servizi, cittadini e istituzioni, e che sempre più, in una società di servizi, costituirà un bacino occupazionale di grandi numeri.
Un modello potrebbe essere proprio quello applicato dalla Vodafone, la società per cui lavora il “non precario” Franco. Il Diario del lavoro è andato a visitare tre call center del gruppo, a Ivrea, Roma e Catania. Abbiamo passato tre giorni interi con i dipendenti, età media 33-35 anni, affiancandoli nel loro lavoro, cercando di capire in cosa consiste, come lo svolgono e lo vivono, cosa si aspettano dal futuro. Ne sono uscite parecchie sorprese, che tendono in direzione opposta a quella dell’immagine tradizionale del call center. Ma forse anche questo è solo un punto di vista. In ogni caso, è il punto di vista che vi racconteremo in questa inchiesta.
La prima cosa che mi raccontano i ragazzi di Vodafone quando li incontro a Ivrea (ma me lo ripeteranno anche a Roma e a Catania) è la storia della “sconfitta di aprile 2009”. Di che si tratta: per chi opera nei call center, mi spiegano, il primo obiettivo è la “soddisfazione del cliente”. A questo dato è legato il 30% degli stipendi. Ma non è solo una questione di soldi: essere sempre i primi in questa classifica, che viene rilevata mensilmente da una struttura specializzata, è un punto di vanto. A Vodafone una sola volta “si è persa la leadership in una rilevazione mensile/bimestrale, per la prima volta in quasi 15 anni di dominio incontrastato. Quando i ragazzi mi raccontano questo episodio sembra di sentire i tifosi dell’Inter che parlano dello scudetto del 2002, perso per un punto in una partita contro la Lazio: una sconfitta che brucia e di cui non ci si fa una ragione.
Le condizioni di “ingaggio” che offre Vodafone ai suoi dipendenti sono appetibili, oltre la media. La quasi totalità degli occupati nei call center è assunta a tempo indeterminato e l’azienda vi investe capitali notevoli in formazione. Dunque costituiscono un asset di cui avere cura. Gi ambienti di lavoro, a Ivrea come a Roma e Catania, sono luminosi, confortevoli, curati anche esteticamente. Ci sono spazi per il relax con chaise longues, tv al plasma, perfino un calciobalilla; mense o cucine attrezzate, per chi preferisce fare da sè. I dipendenti godono di una serie di benefit, che vanno da un certo numero di azioni distribuite ogni anno, all’assicurazione sanitaria a copertura pressoché totale, fino alla maternità retribuita “per un periodo che può arrivare quasi a un anno, consentendo alle giovani dipendenti del gruppo di fare figli senza troppi patemi d’animo”, mi dice Annalisa, entrata a Ivrea a 20 anni e che ora ne ha 36, e che qui ci ha fatto due bambini. Conquiste ottenute ai tempi di Olivetti, certo; ma che Vodafone ha confermato e implementato. C’è anche un part time ben retribuito: “850 euro netti al mese per 6 ore di lavoro: quasi la stessa cifra che un metalmeccanico prende per otto ore, o una commessa per una intera giornata dietro un bancone”, spiega Roberta (che vive ad Ivrea, e che con quella somma è in grado di tirare avanti decentemente). Ma non è solo la maggiore convenienza della paga che sta valutando con questa frase: dal tono con cui ne parla è chiaro che ritiene questo suo lavoro al call center più appagante e creativo, e comunque migliore, anche a prescindere dal guadagno. Creativo e appagante rispondere al telefono in cuffia? Difficile crederlo, ma è un’altra sorpresa.
(fine prima puntata).
Nunzia Penelope