“The karate kid” è un film del 1984. Racconta la storia di un ragazzo vessato da un gruppo di bulli che frequentano la palestra “Cobra Kai”. Per sua fortuna, incontra uno strano personaggio di origine orientale che lo prende sotto la propria ala protettiva e gli insegna le arti marziali. Ma lo fa in un modo opposto a quello del brutale allenatore dei teppisti, che ha come mantra “colpire per primi” e “senza pietà”. Il maestro Miyagi, questo il nome del personaggio interpretato da un indimenticabile Pat Morita, usa metodi del tutto opposti, addestrando il suo allievo alla gentilezza, alla compassione, al controllo di sé stesso. Lavare e lucidare una macchina, “metti la cera, togli la cera”, “inspira dal naso, espira dalla bocca”, levigare il pavimento, dipingere una staccionata e curare un giardino bonsai sono movimenti che fanno parte dell’addestramento e costituiscono la base per la fluidità e l’equilibrio che nel torneo finale consentiranno al neofita di battere i suoi tracotanti e scorretti avversari.
La pellicola ebbe un successo strepitoso e divenne un cult movie. Ora una serie televisiva ha ripreso la trama immaginando nuovi contrasti tra i protagonisti ormai diventati adulti. Gli attori sono gli stessi, con quasi quattro decine di anni in più. Manca solo il buon Miyagi, il cui simpatico volto, che fu candidato all’Oscar, non c’è più. L’idea centrale è sempre la stessa: il contrasto tra l’uso nobile, generoso e difensivo del karate e quello violento, aggressivo, sopraffattorio. Il cavaliere bianco e il cavaliere nero.
Pare che sia una delle fiction più seguite in tutto il mondo, tanto che dopo una seconda stagione ne viene annunciata una terza già in avanzata lavorazione. Figura centrale torna il cattivo maestro, cinico, brutale, sadico. Un ghigno da carogna. Ma a guardare la foto dei due fratelli accusati, con altri complici, di aver ucciso a Colleferro il giovane Willy Montero Duarte, mite e coraggioso paladino di un amico, si capisce che la realtà riesce sempre a superare la fantasia.
I presunti assassini sono esperti nel combattimento, che hanno praticato anche a livello agonistico. Kickboxing e Mma, le arti marziali miste. Un’evoluzione puramente fisica e bellica di quelle discipline provenienti dall’Oriente intrise di culture buddiste e zen che ne temperavano e condizionavano le potenzialità. All’inizio furono il jiu-jitsu e la sua versione sportiva, il judo. Leve e prese il cui apprendimento consentiva al più debole di non farsi sopraffare dal prepotente di turno. Poi arrivò Bruce Lee e fu subito mito.
Il suo stile era il kung-fu (termine generico che significa abilità) cinese ma ad avvantaggiarsene in termini di diffusione fu, per una bizzarra eterogenesi dei fini, l’antagonista kara-te (mano vuota) giapponese. Pochi conoscevano la storia delle arti marziali, la cui culla fu l’India. Alcuni studiosi sostengono che ad Alessandro Magno e ai suoi soldati, durante la campagna in Asia, furono mostrate insolite mosse che poi furono riportate in occidente come dimostrerebbero le raffigurazioni su vasi dei lottatori, greci e romani, di pancrazio. Fatto sta che le tecniche più o meno segrete della lotta corpo a corpo dalle terre del Gange valicarono i monti del Tibet (le leggende narrano le peripezie del saggio Bodhidarma), arrivarono nei monasteri buddisti, tipo Shaolin, e poi dalla Corea attraversarono il mare e sbarcarono nelle isole del Sol Levante. I nipponici, popolo di assimilatori, se ne appropriarono rielaborandole e sviluppandole a modo loro. Un po’ come hanno fatto, secoli dopo, con la tecnologia.
Negli anni settanta le palestre spuntavano come funghi. E cominciarono ad avere un colore politico, per lo più nero (parecchie violenze dell’epoca portavano questo segno) ma con numerose eccezioni rosse. Gli anni di piombo, gli attentati, le bombe, le P38, seppellirono la tendenza allo scontro fisico.
Poi, negli anni ottanta, film come “The karate kid e i suoi emuli”, ad esempio “Il ragazzo dal kimono d’oro”, riportarono in auge i combattimenti a mani nude di esotica provenienza, oscurando pugilato e lotta libera. Attori esperti, da Chuck Norris a Steven Seagal, da Jean-Claude Van Damme a Jackie Chan, sono diventati ricchi e famosi. Un profluvio di stili, di sigle, di federazioni. Tanta serietà ma anche molta improvvisazione. Maestri validi e maestri arruffoni, boriosi, sbruffoni, esaltati, pericolosi, millantatori, che magari si sono assegnati da soli i dan (gradi) della cintura nera. Una giungla nella quale non è facile orientarsi anche se basterebbe assistere ad un paio di lezioni per capire che aria tira. In un dojo degno di questo nome il rispetto delle regole, l’amicizia, l’umiltà sono una scuola di vita. E soprattutto bisogna diffidare di chi esalta solo il combattimento gettando nel cestino ogni connotazione rituale, etica, spirituale, filosofica.
E torniamo a Colleferro. Al dolce sorriso della vittima e alla truce grinta degli aggressori. Lo scrittore Gianrico Carofiglio sostiene che le arti marziali, delle quali è un assiduo cultore, se ben praticate educano all’ autocoscienza e incentivano la temperanza. Ma non al Cobra Kai.
Marco Cianca