Giorgio Caprioli – Segretario generale Fim-Cisl
L’impostazione della piattaforma della Fim per il rinnovo contrattuale deriva da tre scelte fondamentali. La prima è un giudizio sostanzialmente positivo sui risultati ottenuti da un sistema contrattuale regolato. La fonte di tale regolazione, come si sa, è l’accordo interconfederale del 1993, che definì due livelli contrattuali, i loro compiti, le procedure di avvio dei negoziati, il sistema di rappresentanza sindacale aziendale. Quest’insieme di norme costitutive ha permesso non solo il rinnovo dei Ccnl, ma anche una estensione della contrattazione aziendale, che languiva da anni. Si sono manifestati nel tempo dei limiti, soprattutto di insufficiente estensione della contrattazione aziendale, che vanno corretti. Ma è dimostrabile che la metà dei lavoratori metalmeccanici che ha beneficiato di entrambi i livelli contrattuali è riuscita a migliorare il proprio salario reale e i propri diritti.
La Fim giudica quindi positivamente l’esistenza di regole: le interpreta come garanzia e aiuto alla contrattazione, non come camicia di forza. La politica dei redditi, a cui l’accordo del ’93 si ispira, è da riconfermare, ma anche da riformare. Essa è stata alla base del risanamento dei conti pubblici e del calo di inflazione, ma non è stata realizzata compiutamente. E’ mancata una generalizzata redistribuzione della produttività, che ha contribuito a impigrire il sistema produttivo alimentando l’illusione confindustriale sulla percorribilità di una competizione internazionale basta sulla compressione dei costi. E’ mancato rigore nell’orientare al rispetto dell’inflazione programmata anche le tariffe e i prezzi, oltre che i salari.
La seconda scelta riguarda i contenuti fondamentali delle richieste. La Fim cerca di tradurre in decisioni contrattuali le analisi che da anni vengono fatte sulla trasformazione del lavoro, sul superamento del modello fordista, sulla crescente frammentazione sociale e la flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Spostare una parte delle tutele dal posto di lavoro al mercato del lavoro è una scelta necessaria per dare risposte contrattuali alla crescente incertezza che caratterizza (e unifica) i diversi tipi di lavoratore: dal superprofessionalizzato, al lavoratore stabile e molto legato all’azienda in cui opera, a quello flessibile o precario.
Un primo elemento di incertezza è dato dagli strumenti di valutazione e riconoscimento della professionalità necessari a definire un giusto salario e percorsi di carriera più certi e trasparenti. Si chiede per questo una modifica dell’inquadramento unico, che definisca nel Ccnl cinque fasce professionali e l’appartenenza ad esse dei tanti lavori presenti nel settore. A livello aziendale e/o territoriale andranno invece meglio analizzate e descritte le competenze massime di ogni lavoro, i percorsi professionali e formativi per raggiungerle, il salario corrispondente ai vari stadi di professionalizzazione contrattualmente definiti.
E’ un modo concreto per tornare ad essere come sindacato autorità salariale e professionale, reimpadronendosi delle conoscenze sull’organizzazione del lavoro. E ciò è possibile solo decentrando al secondo livello una parte significativa delle titolarità contrattuali sull’inquadramento.
Un secondo elemento di incertezza è l’accesso alla formazione, da tutti giustamente considerata uno strumento chiave per la tutela e la promozione professionale dei lavoratori. Si chiede perciò una rivisitazione delle gloriose 150 ore, finalizzata a renderle utilizzabili sia per il conseguimento di un diploma medio superiore che per la formazione professionale.
Un terzo elemento di incertezza è la stabilità del lavoro, legata sia alla sua ricerca, sia alla trasformazione dei rapporti a tempo determinato in rapporti stabili. Su quest’ultimo aspetto si cerca di rendere semplici e facilmente controllabili i limiti che la stessa Unione europea indica di porre rispetto all’utilizzo di questi rapporti di lavoro. Si chiede perciò di stabilire un tetto percentuale onnicomprensivo a queste assunzioni: l’esperienza di questi anni ci ha infatti insegnato che esso è l’unico vincolo facilmente controllabile e gestibile dalle Rsu.
Ma per tutelare il lavoratore rispetto ai rischi della flessibilità nel mercato del lavoro è indispensabile dotarsi di strumenti nuovi di intervento nel sistema di collocamento. Oggi il lavoratore in Italia è solo e non assistito quando cerca un lavoro. E la privatizzazione del collocamento può migliorare l’efficienza del servizio, ma rischia di penalizzare i lavoratori più deboli. Per questo la Fim richiede l’istituzione di Enti bilaterali, finanziati dalle imprese e senza scopo di lucro, con compiti di intervento sulla formazione professionale e il collocamento e di sostegno alla gestione del nuovo inquadramento nelle piccole imprese.
Questo triangolo (inquadramento – formazione – collocamento) può essere definito il cuore della piattaforma Fim. Esso richiede un maggior decentramento della contrattazione, ma nello stesso tempo esalta il ruolo del contratto nazionale come strumento decisivo per realizzare riforme di ampia portata. Esso realizza la scelta strategica di ridare grande peso nella nostra azione al tema del lavoro e della sua condizione concreta.
Questi sono, a nostro avviso, i temi unificanti di una categoria tanto estesa quanto percorsa da differenze e disuguaglianze. Per questo la Fim ritiene un errore enfatizzare il tema del salario. Anche su questo tema, comunque, si propongono due innovazioni non secondarie. La prima è quella di confermare la possibilità di superare l’inflazione programmata, come già è accaduto nell’accordo separato di due anni fa. La seconda è quella di individuare una strada per distribuire aumenti di produttività anche ai lavoratori che nel quadriennio non avranno beneficiato di accordi aziendali.
La terza scelta fondamentale riguarda il tanto discusso tema della democrazia sindacale. Su di esso si è consumata una grande operazione propagandistica della Fiom, che ha tentato di giustificare la propria indisponibilità a costruire una piattaforma unitaria con il rifiuto di Fim e Uilm a utilizzare il referendum per approvare piattaforme e accordi.
Come sul salario, la Fim ha scelto di aprire una discussione seria e chiara senza cedere a lusinghe populiste e al timore dell’impopolarità. L’uso del referendum tra tutti i lavoratori per approvare piattaforme e accordi sindacali, che suscita un istintivo consenso tra gli interessati perché appare il non plus ultra della democrazia, si presta a tali e tante obiezioni da farlo apparire più che altro uno strumento di demagogia.
La prima obiezione è la titolarità della contrattazione collettiva. Essa è, in tutto il mondo, indiscutibilmente del sindacato e non dei lavoratori. Anche la nostra Costituzione è chiara in merito: prevede il diritto dei lavoratori a organizzarsi in sindacato e a scioperare. La possibilità di contrattare è conseguente all’esistenza del sindacato e non un suo presupposto. Esistono infatti sindacati che non riescono a contrattare (in particolare nei regimi dittatoriali), ma non esiste contrattazione collettiva senza sindacato. Se è il sindacato il titolare della contrattazione, è incongruente sostenere che l’ultima parola sugli accordi la debbano dire tutti i lavoratori, iscritti e non. Del resto, per i sindacati degli altri paesi europei questo è un assunto scontato. Tedeschi e svedesi, per fare due illustri esempi, consultano solo i propri iscritti.
La tesi, cara alla Cisl, per cui bisognerebbe rispondere solo agli iscritti trova però un serio ostacolo quando si è in presenza di pluralismo sindacale, come in Italia. In questo contesto si pone infatti il problema di individuare meccanismi condivisi per regolare eventuali dissensi tra le organizzazioni. Ma anche in questo caso la soluzione referendaria si presta a obiezioni.
La prima riguarda l’estensione del voto referendario. In democrazia, tutti gli elettori dovrebbero avere le stesse opportunità di votare. Ma nei referendum sindacali si è ben lontani da questa prima regola elementare. Infatti gli stessi metalmeccanici riescono a portare urna e cabina elettorale in aziende che impiegano circa 1 milione di addetti: ne resta escluso più di mezzo milione di lavoratori, e dunque oltre un terzo della categoria. Inoltre, proprio i dati in possesso di Fim, Fiom e Uilm dimostrano che, della platea coinvolta, mediamente ha votato solo la metà dei lavoratori raggiunti (da un minimo di 448.000 a un massimo storico di 558.000: meno degli stessi iscritti alle tre organizzazioni sindacali!). Del resto una riprova viene dai dati relativi all’unico referendum confederale, fatto per la riforma delle pensioni, che ha registrato meno di 5 milioni di votanti su una platea potenziale di oltre 30 milioni, tra pensionati e lavoratori attivi.
La seconda obiezione è di natura procedurale. Le procedure, si sa, sono regole e certezza della loro applicazione, cioè la sostanza della democrazia. Ai più sfugge che i referendum sindacali sono autogestiti: chi si sottopone al voto gestisce anche lo spoglio e proclama i risultati. Se i gestori hanno diverse opinioni sul risultato auspicato, andrebbe quantomeno garantita una pari capacità di presenza agli spogli e nella estensione dei verbali – il che non è dato, a causa della differente forza economica e organizzativa tra i diversi sindacati. In buona sostanza: chi controlla i controllori?
La terza obiezione è politica. Tutti i sistemi maggioritari hanno bisogno di contrappesi e correttivi per evitare la logica del ‘chi vince piglia tutto’. Ne abbiamo una dimostrazione nel sistema politico italiano. In un sistema sindacale questa cautela vale a maggior ragione: altrimenti perché uno o più sindacati, messi in minoranza da un voto referendario, dovrebbero continuare a impegnarsi per obiettivi non condivisi? Gli eventuali vincitori si troverebbero inoltre ad affrontare il conflitto con le controparti da una posizione indebolita, tanto da rischiare l’inefficacia (non a caso il sindacato tedesco, che fa votare nei referendum i soli iscritti, prevede una maggioranza ultraqualificata – 75% – per bocciare un accordo). Insomma il referendum poggia su una illusione ultramaggioritaria che è pericolosa in politica e rischia di essere letale per il sindacalismo. In realtà è l’anticamera di quel bipolarsimo sindacale che tutti dicono di voler evitare.
Infine c’è un’obiezione relativa alla forma di democrazia. Il referendum è lo strumento per eccellenza di democrazia diretta. Gli studiosi di comportamenti elettorali mettono in guardia contro l’uso eccessivo di questa pratica. Il singolo elettore spesso è privo delle competenze e delle informazioni necessarie a votare con piena cognizione di causa. Ciò a maggior ragione vale per gli accordi sindacali, frutto di lunghe trattative, di scioperi, di faticose mediazioni nelle quali occorre saper valutare anche i costi e i benefici di medio periodo e non solo quelli immediati, che inevitabilmente prevalgono nelle valutazioni referendarie.
Per questo la forma più adatta alle decisioni sindacali è la democrazia delegata, che si basa sulla scelta da parte dei lavoratori di persone non solo di loro fiducia, ma anche di provata, o quantomeno auspicata, competenza.
Sulla base di tutte queste considerazioni, la Fim ha avanzato una sua proposta, ormai nota, specificamente rivolta alla spinosa questione dei meccanismi decisionali che devono accompagnare il rinnovo del contratto nazionale. Può non piacere. Ma a chi considera il referendum come l’unica forma di democrazia è lecito chiedere: visto che questo modo di decidere è stato utilizzato in Italia solo dai metalmeccanici (e solo su accordi unitariamente condivisi) e non è usato da nessun altro sindacato al mondo, è possibile che tutti gli altri sindacati non siano democratici?