Il virus della divisione a prescindere, della contrapposizione tra le fazioni di potere (e sottopotere), della guerra senza esclusione di colpi (e di offese), dell’interpretazione tendenziosa delle regole, si è fatto strada anche in Cgil? Io, sinceramente, non ci credo, malgrado quello che sostengono alcuni giornali. Perché la Cgil è cosa più ricca, complessa e diversa, più storicamente radicata di un qualsiasi partito della sinistra che si dilania sulle poltrone in assenza di una credibile strategia. Dopo il direttivo di sabato 27, penso che sarebbe molto opportuno fermare l’orologio della designazione del prossimo segretario generale (i cui tempi sono previsti per fine gennaio) e aprire un confronto franco sui contenuti programmatici della Cgil.
Perché oggi la priorità da condividere è quale sindacato e quale Cgil siano necessari al lavoro e al Paese. Alla luce delle trasformazioni sociali, economiche, soprattutto politiche e democratiche, intervenute in maniera più veloce e più imprevedibile di quanto scritto nel documento unitario “IL LAVORO è” che pure tutti abbiamo condiviso e sostenuto. Meglio prenderne atto e reagire ora, piuttosto che accorgercene improvvisamente dopo il Congresso.
Lo spartiacque sta qui, secondo me, sul futuro del sindacato. Ed è una responsabilità molto grande per noi, per i corpi intermedi e per la stessa sinistra in Italia. Poiché la direzione di marcia e la direzione politica della Cgil non sono mai state un fatto solo interno dell’organizzazione, dato il peso che abbiamo sempre avuto e lo spazio, che occupiamo oggi, di essere la più grande organizzazione della sinistra ancora viva in questo Paese.
Certo, è giusto che la scelta del segretario più adatto a gestire la transizione e l’innovazione (e di tutto il gruppo dirigente) non sia “separata” dalle decisioni strategiche che intendiamo compiere. Ma, a maggior ragione, la priorità da cui partire è la condivisione più larga possibile di un’idea programmatica su come rappresentare meglio il lavoro e la società e non iniziare una guerra tra candidati a prescindere. Anche questo ci insegnò Bruno Trentin. Il mio è un appello perché, a partire dal prossimo direttivo, si vada in quella direzione.
Per essere espliciti (a rischio di essere semplicisti) io credo che i modelli di sindacato tra cui dovremmo scegliere quale è più giusto avviare nell’Italia di oggi (non in quella di venti anni fa) siano sostanzialmente due. Uno di resilienza, in continuità con quanto siamo riusciti a difendere (malgrado tutte le avversità economiche e politiche) in questi anni di disintermediazione e crisi delle imprese. Uno di innovazione sia strategica che organizzativa per ampliare la rappresentanza. Chi conosce la Cgil sa che si tratta di una confederazione così diffusa e complessa, multiforme per esperienze e culture, che sarebbe più giusto parlare di una rotta comune, piuttosto che non di un vestito uguale per tutti. Ma certe direttrici si possono già individuare con nettezza in risposta ad altrettante domande che da troppo tempo ci poniamo. Provo a richiamarne alcune.
Dove si intercetta il nuovo lavoro, quello destrutturato dalla precarizzazione e dall’innovazione? La mia risposta è che non basta provarci dai luoghi di lavoro classici, bisogna scoprirlo e organizzarlo dove è: nelle città, nelle periferie, nelle campagne, nelle start up giovanili, nella cooperazione sociale, nel mondo delle partite Iva, nell’appalto e nel subappalto, nella gig economy…
Dove si dà vita a una politica economica che crei nuova occupazione per i giovani e le donne? In un confronto/vertenza col Governo, questo o il prossimo che sia? Beato chi ci crede… Io penso anche qui che sia necessario mobilitarsi a livello regionale, di Città metropolitane e Comuni. E accettare la sfida esplicita del Piano del Lavoro: creare nuovi posti dignitosi a risorse date. Troppo facile farlo in deficit, cioè con i soldi delle prossime generazioni.
Ancora: se è vero, come purtroppo è vero, che il welfare (salute, assistenza, istruzione, trasporti, servizi urbani) in Italia non è omogeneo e garantito per qualità e presenza delle strutture necessarie, pensiamo sia possibile renderlo omogeneo attraverso il welfare contrattuale di categoria o addirittura di azienda? Io penso che in questo modo le disuguaglianze sociali e territoriali aumenteranno invece che calare. Anche in questo caso è necessaria una mobilitazione e una contrattazione dal basso: territori, Comuni e Regioni. Sui tempi di attesa, sul riciclaggio dei rifiuti, sull’efficienza dei treni, sul miglioramento delle competenze diffuse spesso il Governo nazionale non sa nemmeno da dove si comincia.
Anche sull’innovazione 4.0: certo è necessario che il Governo riprenda a sostenere le industrie che l’adottano. Ma pensiamo che basti? Che le poche grandi imprese industriali italiane che innovano saranno in grado di diffondere la digitalizzazione a tutti i settori e a tutto il territorio nazionale? Ne dubito, se non si spinge dal basso la domanda di innovazione e competenze nelle infrastrutture, nei servizi, nelle città.
E le aree interne del Paese? Le periferie delle città? miglioreranno per decreto governativo senza che ci sia un soggetto in grado di ascoltare i bisogni dei lavoratori e dei cittadini e trasformarli in indirizzi, piattaforme rivendicative e progetti reali?
Per non dire dei vincoli di sostenibilità (economica, sociale, ambientale) su cui teoricamente siamo d’accordo tutti, ma pochissimi se ne sentono vincolati nell’attività contrattuale.
Molte di queste funzioni un tempo le svolgeva la politica. Ora non c’è più un soggetto che assuma i bisogni dei cittadini e si batta per soddisfarli. Il populismo non fa questo: ascolta le paure e le incertezze e le amplifica alla ricerca di un consenso a breve. Forse tocca al sindacato e agli altri corpi intermedi riempire questo vuoto con una rete di relazioni e iniziative vertenziali e contrattuali. Vorrei essere più preciso: sto parlando di nuove forme di rappresentanza dei bisogni e iniziative di concertazione/contrattazione sociale territoriale in grado di dare risposte al lavoro e ai cittadini, non di ipotetiche “coalizioni sociali” che, quando funzionano bene, si limitano a dare voce più forte a a quei bisogni. La nostra funzione è contrattare benefici reali, non cercare standing ovation mediatiche.
Piattaforme regionali e territoriali serie e condivise su tutti questi (e altri) temi non si fanno certamente senza l’apporto conoscitivo, le culture e le esperienze delle categorie interessate (sanità, scuola, pubblico impiego, trasporti, ecc), ma non si possono nemmeno immaginare senza una regia confederale forte. Le categorie non possono farlo da sole. Abbiamo bisogno di una confederazione (a tutti i livelli) che assuma il ruolo di regia dell’attività sindacale, per evitare la frammentazione innovativa o la chiusura difensiva.
Tempo fa si parlava della necessità di dar vita a una “nuova confederalità” e io sono d’accordo. Si parlava della necessità di uscire dai luoghi di lavoro (e dalle sedi sindacali), come ai tempi dei consigli di zona. Si parlava persino della necessità di sperimentare forme di rappresentanza nuove come “il delegato di quartiere”. Ripeto, tutto questo non si può fare senza che le Camere del Lavoro siano le protagoniste dell’innovazione e senza una confederalità capace di riportare a sintesi le esperienze sempre parziali, a volte non comunicanti fra loro, delle categorie.
E tutto questo non si può costruire senza una robusto rapporto unitario con Cisl e Uil: una rinata “unità d’azione” attorno a priorità e percorsi condivisi. Sono le buone pratiche di questi anni a livello territoriale (e ogni tanto anche nazionale) che lo dimostrano.
Secondo me questi sono i lineamenti necessari all’innovazione del sindacato: non i soli, non esclusivi, ovviamente, poiché la contrattazione sul lavoro è ancora indispensabile, anzi, bisognerebbe farne di più riequilibrando il rapporto (in quantità e qualità) tra Ccnl e contratti aziendali.
Al prossimo direttivo e ai prossimi importanti congressi mi piacerebbe, lo dico con umiltà, ascoltare le nostre strutture parlare di questo, delle loro esperienze (magari dividendosi sui giudizi), piuttosto che schierarsi con una squadra o con l’altra a priori. Sabato si è persa un’occasione per avviare una discussione utile e unitaria, preferendo spaccarsi sui nomi e il metodo.
Parafrasando Nanni Moretti vorrei dire: “NON continuiamo così, NON facciamoci del male!”
ps. La nuova etica che circola in Cgil in questi giorni è che sia legittimo esprimere la propria posizione urbi et orbi sui social (magari, come qualcuno fa, in forma anonima e offensiva), piuttosto che (con tanto di nome e cognome) sulle testate giornalistiche che seguono da anni in modo puntuale i temi del lavoro e del sindacato. Io penso che sia un altro svarione che dovremmo risparmiarci: ognuno si esprime come e dove può ed è desiderabile venga valutato per quello che dice piuttosto che per i like (o gli insulti) che riceve.