Quando si parla d’acciaio, bisogna alzare la testa e guardare lontano. Lontano sia in senso spaziale che temporale. Per fare un paio di esempi, se se ne parla oggi in Italia, bisogna gettare lo sguardo fino alla Cina, nella dimensione spaziale, e almeno fino ai prossimi dieci-quindici anni, in quella temporale. Perché la Cina è ormai divenuta la principale potenza siderurgica del Pianeta e porta avanti una politica dei prezzi aggressiva, grazie anche al suo basso costo del lavoro (non contempla libertà sindacali) e alla modestia delle sue preoccupazioni ecologiche. E perché un periodo di dieci-quindici anni costituisce l’orizzonte temporale di parte della transizione tecnologica attualmente in corso.
Ma si potrebbe aggiungere che se ad avviare un dibattito sul presente e sul futuro della produzione di acciaio in un Paese come l’Italia è un sindacato come la Cgil, il discorso dovrà subito superare anche la dimensione puramente sindacal-contrattuale, per lanciarsi, da un lato, nel campo dell’innovazione tecnologica e, dall’altro, in quello della politica industriale. Finendo quindi rapidamente per sconfinare in quelli della politica economica e delle relazioni internazionali, viste a partire da un’ottica, quanto meno, europea.
In parole semplici, quello della siderurgia è un settore che, forse più di ogni altro settore industriale, obbliga chi voglia farne oggetto di studio prima e di intervento poi, a pensare in grande. E se ne è avuta ieri una riprova nel corso del seminario intitolato “Un piano nazionale per l’acciaio. Dove va la siderurgia italiana”; seminario che è stato coordinato da Emilio Miceli, segretario confederale della Cgil, e si è svolto on line.
La Cgil è giunta da qualche tempo alla convinzione che la complessità dei problemi che si pongono oggi in Italia, per non dire entro i confini dell’Unione europea, a chi si proponga di produrre acciaio di qualità a prezzi competitivi, e in termini ambientalmente compatibili, è tale da superare le possibilità concrete anche di singole grandi imprese. Il che, se si vuole che il nostro Paese mantenga il secondo posto che oggi occupa non solo nella classifica dei Paesi europei dotati di una significativa industria manifatturiera, ma anche in quella dei produttori di acciaio, richiama in causa lo Stato.
Nella sua relazione introduttiva, Fausto Durante, coordinatore della Consulta delle politiche industriali della Cgil, è partito da tre considerazioni di base. Prima: la produzione di acciaio ha un valore strategico per ogni Paese che voglia essere annoverato fra i Paesi industriali. Seconda: l’acciaio è componente essenziale per molti altri settori dell’industria manifatturiera, dall’automotive alla cantieristica navale, dai beni strumentali agli elettrodomestici, dalle costruzioni alle ferrovie, dalle macchine agricole all’aerospazio Terzo: in Italia, la siderurgia occupa oltre 70.000 lavoratori attivi “in aziende e territori che hanno avuto un ruolo di primissimo piano nella storia dell’industria e del movimento sindacale” del nostro Paese.
Ciò ricordato, Durante ha affermato che, “a maggior ragione alla luce degli effetti sull’economia italiana e sulla siderurgia della pandemia da Covid-19 ancora in corso”, la Cgil intende lanciare “un messaggio chiaro e diretto: l’Italia ha bisogno di un Piano nazionale per l’acciaio”, vale a dire di “un progetto industriale complessivo” che “definisca strumenti e misure affinché il settore possa affrontare e superare l’emergenza Covid-19, salvaguardi l’insieme della capacità produttiva dei diversi siti siderurgici del paese” e “contempli i casi e regoli le modalità dell’intervento di strutture e risorse pubbliche nelle compagini proprietarie delle aziende siderurgiche, quando ciò dovesse risultare necessario e utile”.
In particolare, rispetto agli “effetti della pandemia sull’industria”, Durante ha ricordato “lo spezzarsi in più punti di una catena del valore diventata infinita e nei cui ultimi anelli, spesso, sono stati i diritti sociali e del lavoro a pagare il prezzo” più alto.
In termini temporali, però, la pandemia è solo la più recente fra le sfide che oggi fronteggiano la siderurgia. Le altre due, manifestatesi già da tempo, sono quelle della digitalizzazione dei processi produttivi – relativa, anche se in misura e in modi diversi, a molti altri settori – e quella della decarbonizzazione.
Ora qui occorre ricordare due cose. La prima è che col termine “decarbonizzazione”, il cui uso è sempre più frequente, ma non sempre altrettanto appropriato, ci si riferisce alla diminuzione relativa della quantità di carbonio rispetto a quella di idrogeno utilizzate in un dato processo, con particolare riferimento all’utilizzo delle fonti energetiche. La seconda è che rispetto alla produzione di acciaio da ciclo integrale, ovvero rispetto alla produzione realizzata con la tecnologia dell’altoforno, il carbonio è parte decisiva e indispensabile del processo produttivo. Infatti, in natura, nel minerale di ferro, il ferro stesso si trova legato, da un punto di vista chimico-fisico, all’ossigeno. In altre parole, in natura non ci si trova di fronte al ferro puro, ma a degli ossidi di ferro. Per liberare il ferro dall’ossigeno, occorre procedere a un’opera cosiddetta di “riduzione”. Opera che viene compiuta per mezzo del carbonio contenuto nel coke, il noto combustibile derivato dal carbone. Alle alte temperature che possono essere raggiunte in un altoforno, tale carbonio si lega all’ossigeno, liberando il ferro stesso dalla presenza di quest’ultimo.
Come si può facilmente comprendere, con la produzione di acciaio per mezzo di altoforni si rischia di accrescere la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera. Laddove lo scopo delle attuali politiche ambientali è proprio quello di bloccare o, quantomeno, di contenere tale crescita.
Come uscirne? Da un punto di vista tecnologico, le strade che si aprono davanti a chi si proponga di realizzare una siderurgia ambientalmente “pulita”, ovvero decarbonizzata, sono due. Da un lato, si tratta di ricorrere in misura sempre maggiore alla già esistente e diffusa tecnologia dei cosiddetti forni ad arco elettrico. Una tecnologia, questa, che non parte dal minerale, ma dai rottami di ferro, e che, seguendo un altro percorso produttivo, è molto meno inquinante. Dall’altro lato, si tratta invece di intervenire con forti modificazioni sulla tecnologia dell’altoforno, puntando a utilizzare l’idrogeno al posto del carbonio per effettuare l’opera primaria di riduzione degli ossidi di ferro che costituiscono il minerale ivi utilizzato.
Ora qui va detto che, come ha ricordato Durante nella sua relazione, secondo gli ultimi dati disponibili, quelli relativi al 2020, l’Italia “produce oltre l’80% dei suoi 20 milioni di tonnellate di acciaio” con la tecnologia del forno elettrico. Da questo punto di vista, si può quindi dire che il nostro Paese si trova all’avanguardia in Europa. In altri grandi paesi industriali, come la Germania, ci si trova, infatti, di fronte a un quadro rovesciato, dove la percentuale dell’acciaio prodotto con i forni ad arco elettrico è molto inferiore a quella dell’acciaio realizzato con gli altoforni.
Tuttavia, ciò non significa che al nostro Paese convenga puntare solo sulla tecnologia del forno elettrico, già ampiamente diffusa, e con ottimi risultati, specie nel Nord-Est. Tra gli esperti del settore, infatti, nessuno pensa che sia anche solo concepibile l’idea di rinunciare all’ex-Ilva di Taranto, ovvero al più grande centro siderurgico integrato dell’intera Europa.
Qui si tratta dunque di seguire la seconda strada, quella dell’innovazione tecnologica. Un’innovazione che punti, in questo specifico campo, a sostituire l’idrogeno al carbonio come fattore di riduzione volto a ottenere quel ferro puro che poi potrà essere trasformato in acciaio. La strada è tracciata, nel senso che si sa da dove si parte, gli altoforni come sono fatti oggi, e dove si vuole arrivare. Ma, ecco il punto, non è stata ancora percorsa.
Qui sorge l’interrogativo: quanto ci vorrà per percorrerla? Almeno dieci anni. E’ questa la valutazione corrente fra gli esperti del settore e che, nel corso del seminario, è stata riproposta da Alessandro Banzato, l’imprenditore padovano che, nel 2018, ha preso il posto di Antonio Gozzi alla guida di Federacciai.
Il punto, quindi, è che il problema di una decarbonizzazione almeno relativa, se non assoluta, della produzione di acciaio col sistema dell’altoforno è oggi ritenuto risolvibile. Tuttavia, nonostante che lo stesso gruppo ArcelorMittal, come ha ricordato ancora Durante, abbia avviato nel suo sito di Amburgo una produzione sperimentale con la nuova tecnologia che utilizza l’idrogeno al posto del coke, non si tratta di una soluzione disponibile già domani su larga scala.
Alle tre sfide che abbiamo sin qui evocato – pandemia, digitalizzazione, decarbonizzazione – se ne aggiunge poi, come minimo, una quarta. Quella su cui ha insistito, nel suo intervento, Gianni Venturi, responsabile per la siderurgia nella Segreteria nazionale della Fiom, il sindacato metalmeccanici della Cgil.
Venturi, infatti, ha osservato che la crescita relativa, che è lecito attendersi, della produzione di acciaio da forno elettrico porterà il rottame di ferro a diventare una merce sempre più scarsa rispetto alla domanda, e quindi a una crescita del suo prezzo a livello mondiale. Per non parlare della sempiterna questione dei costi dell’energia, un fattore cruciale in un settore che, come è noto, è altamente energivoro.
Come si vede, ce n’è abbastanza perché una confederazione sindacale “generale” come la Cgil avverta l’esigenza di richiedere ai poteri pubblici la stesura di un piano di settore. E d’altra parte, per fare nostro l’interrogativo che un antico maestro dell’ebraismo pose a sé stesso duemila anni fa, se non ora, quando? Nel senso che, proprio in questo periodo, il riscaldamento climatico e la pandemia da Covid-19, oltre a costituire due sfide inevitabili per diversi settori industriali, hanno anche costituito due fattori di rischio che hanno spinto l’Unione Europea a dotarsi di programmi di azione economica di ampie proporzioni e inedite ambizioni: il Green Deal europeo, ovvero un insieme di iniziative il cui obiettivo generale è quello di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050, e l’insieme di misure varate per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia da Covid-19, fra cui primeggia il Next Generation EU.
A livello di Unione Europea, ci sono quindi programmi e risorse cui, volendo e sapendolo fare, i singoli Governi nazionali possono attingere per realizzare robuste innovazioni tecnologiche e produttive, finalizzate, appunto, da un lato a stimolare la digitalizzazione e, dall’altro, ad abbattere i danni fino ad oggi arrecati, in materia ambientale e climatica, all’unico Pianeta di cui disponiamo.
Ora qui va osservato che il seminario tenuto ieri era stato preparato quando non si poteva ancora immaginare che si sarebbe svolto poche ore dopo l’annuncio fatto dal Presidente della Repubblica, Mattarella, circa l’assegnazione a Mario Draghi dell’incarico di formare il terzo Governo dell’attuale legislatura.
Fatto sta che nella sua relazione Durante ha sottolineato che “il Governo”, ovvero il secondo Governo Conte, “aveva indicato già nel documento divulgato nello scorso giugno, a conclusione dei cosiddetti ‘Stati generali’, come il Piano nazionale per l’acciaio fosse tra i suoi obiettivi”. E ha poi affermato che “per noi quell’impegno va mantenuto, quale che sia la composizione del Governo che verrà”. E ciò anche perché, come è scritto “nel documento di valutazione della Cgil sulla bozza del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, noi pensiamo che il Piano nazionale per l’acciaio debba essere inserito nel PNRR e debba trovare una collocazione adeguata fra gli obiettivi e le missioni dello strumento con cui l’Italia gestirà le risorse del Next Generation EU”.
Inoltre, Durante ha specificato che “a noi è parsa condivisibile e utile la decisione del Governo italiano (sempre il Conte due – n.d.r.) di partecipare, attraverso Invitalia, al capitale di ArcelorMittal InvestCo (la società che gestisce gli stabilimenti ex-Ilva) e, in prospettiva, di acquisire la maggioranza delle azioni e quindi il controllo della società”. (Nell’immediato, il 50% delle azioni, mentre nel 2022 la quota di Invitalia salirà al 60%.)
Tutto ciò, sempre secondo Durante, non per riaprire una discussione su “Stato, mercato ed economia”, ma perché, pandemia a parte, la presenza pubblica nelle attività industriali, fra cui la siderurgia, è “ampiamente praticata in diversi importanti Paesi europei”. Ad esempio, “l’influenza dei lander nelle scelte e nelle politiche delle imprese siderurgiche tedesche – nel quadro della cosiddetta co-determinazione – è nota e documentata”. “Non dovrebbe, perciò, essere considerato scandaloso o improponibile prevedere che si segua la strada del coinvolgimento pubblico per le realtà aziendali di valore strategico o di interesse nazionale, nella siderurgia e in altri settori.”
Adesso, il Governo Conte bis non c’è più e, con ogni probabilità, la Cgil, come gli altri sindacati, dovrà iniziare a confrontarsi con un altro Esecutivo. Ma, certamente, non può essere privo di significato il fatto che, nelle conclusioni del seminario, il Segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, abbia dichiarato di pensare che “la mossa del Presidente della Repubblica sia stata una mossa di grande intelligenza e di grande opportunità”. Forse anche in corso d’Italia pensano che, se si tratta di coordinarsi con l’Unione europea per decidere come impiegare imponenti risorse finanziarie allo scopo di innovare sia in senso digitale che in senso ambientale un nostro decisivo settore industriale, l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, possa essere l’uomo giusto al posto giusto.
@Fernando_Liuzzi
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