Assassino, delinquente, infame. Un vigliacco che non ha mai chiesto scusa. Finirà dove merita, non deve uscire vivo dalle patrie galere. Matteo Salvini non ha nascosto il suo disprezzo per Cesare Battisti. Come dargli torto? Il sangue e il dolore sparsi dal terrorista restano incancellabili anche dopo 37 anni di latitanza. Un mascalzone con quattro omicidi sulla coscienza e nemmeno un minimo accenno di pentimento. Anzi, quel ghigno sardonico che ostentava alzando il calice in qualche bar del Brasile, appariva come un’ignobile derisione nei confronti delle vittime e dei loro parenti. Il suo arresto rappresenta davvero una buona notizia. Giusta l’esultanza del governo, qualsiasi esecutivo avrebbe espresso analoga soddisfazione, e lode ai nostri investigatori per la sua cattura. Diverso è esibire il suo scalpo come un tribale trofeo. Questione di stile e lo stile, sperando di non incorrere nei fulmini di Manzoni, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.
Ma la verità è che il buio della ragione sta inghiottendo anche la cultura giuridica, con buona pace di Cesare Beccaria. La giustizia si confonde con la vendetta, la volontà punitiva scaccia ogni intento rieducativo, la pena deve essere solo afflittiva, le condanne sono sempre troppo lievi, andrebbe applicata la legge del taglione, per banditi e omicidi il carcere è un lusso eccessivo.
Le nuove norme sulla legittima difesa stanno per essere approvate e la loro applicazione, abolendo la discrezionalità del giudice per valutare l’effettiva proporzione tra la minaccia subita e la relativa reazione, di fatto garantiranno la licenza di uccidere ladri e rapinatori. Se lo meritano, tanto sono irrecuperabili, è in genere il commento più diffuso. E in presenza di feroci atti di sangue la vulgata è che sono bestie e come tali vanno trattate, abbattendole.
In Italia non è ammessa la pena di morte, articolo 27 della Costituzione. Le ultime esecuzioni furono eseguite ai primi di marzo del 1947. La tentazione del nodo scorsoio torna negli anni di piombo. Giorgio Almirante lancia una petizione per chiedere nei confronti dei terroristi l’applicazione del codice di guerra, (una possibilità che è stata cancellata solo nel 2007). Raccoglie un milione di firme. Il 23 febbraio del 1982 a Montecitorio il segretario del Msi parla della distinzione tra paese reale e il paese legale in un parlamento “inerte, sonnolento, fazioso fino all’inverosimile, anche nell’assenza”, invoca “la coscienza popolare” e sostiene che secondo i sondaggi più della metà degli italiani è favorevole al ripristino della pena capitale per quelli che sono “non uomini ma lupi”. Lo Stato non cedette. E vinse.
Ma se le ataviche pulsioni alla soluzione estrema, sopite ma non dome, riemergessero in questi giorni tenebrosi? A breve, potrebbe essere introdotto il referendum propositivo: quando una legge presentata da almeno 500 mila persone non viene approvata entro 18 mesi, la parola passa agli elettori che possono vararla in modo definitivo. Il trionfo della democrazia diretta, una messa in mora delle Camere intese non come indispensabile luogo di compensazione e di mediazione tra idee e sensibilità diverse ma vissute come inutili se non dannosi orpelli della società liberale (Almirante docet…). E così persino il ritorno della forca potrebbe essere acclamato dal popolo. Fantapolitica? Certo, anche perché trattandosi di modifiche della Carta fondamentale, tutto sarebbe più complicato, in quanto sono necessari vari passaggi. Ma quel che interessa, al di là dei formalismi giuridici, è capire se la tanto accarezzata pancia del Paese sarebbe favorevole all’impiccagione, alla fucilazione o alla sedia elettrica per i criminali conclamati. Temiamo di sì.
Marco Cianca