Il dibattito aperto sui salari è di grande interesse, ma, almeno fin qui, c’entra assai poco con la proposta precisa e di merito che il presidente della Bce ha avanzato, prima in modo informale e poi formalmente nell’ultimo Consiglio di Amministrazione. Valutazioni che, per questo, di conseguenza, sono state trasmesse ufficialmente agli organi istituzionali europei, Consiglio, Commissione e Parlamento. Quindi troverei più utile cimentarsi sulla proposta concreta, per condividerla o respingerla, e non tanto per aprire un sempre utile e sicuramente suggestivo, ma forse inefficace dibattito sul tema.
Draghi intanto cosa ha detto e perché l’ha detto. Il Presidente in tre circostanze consecutive, a luglio alla Conferenza dei banchieri europei a Sintra, in Portogallo; ad agosto nel suo discorso ufficiale ai banchieri del mondo, a Jackson Hole, e poi nel Consiglio di amministrazione di settembre della Bce, ha sollevato due – e non uno solo – problemi urgenti della politica economica europea. Il primo è il mercato del lavoro ed il secondo quello dei salari.
Perché l’ha sollevato ? Lo ha fatto in risposta alle pressioni di alcuni importanti Governi del Centro e Nord Europa, Scandinavi ed Olandesi innanzitutto, e, nella Bce, davanti alle posizioni della Bundesbank. Tutte queste pressioni erano e sono finalizzate affinché, la Bce, chiuda definitivamente la ormai lunga fase della politica monetria espansiva, ovvero tassi di credito a zero e Quantitative easing, sulla base della considerazione che ormai la ripresa è “solida e diffusa” anche in Europa e che la fase più acuta dell’emergenza sui titoli di debito si può considerare, anche per la Grecia, ormai alle spalle.
Draghi ha risposto motivando perché queste considerazioni siano ancora insufficienti per condurre ad un cambio di politica monetaria. Primo, perché è vero che c’è un buon tasso di crescita, ma esso è disuguale e reversibile. Disuguale per territori geografici ( forte in Asia, meno –tranne la Germania- in Europa e debole e contradditoria negli Usa e in Gran Bretagna). Anzi la debolezza crescente del dollaro, in conseguenza delle politiche della nuova Amministrazione, ha incisivamente rafforzato l’euro creando problemi rilevanti nella politica di cambio e per le nostre esportazioni, fino – per le incerte vicende coreane – a fare dell’euro, negli ultimi due mesi, una moneta rifugio, come beni come l’oro, il litio ed il cobalto, con ulteriori svantaggi rispetto a tutte le altre valute mondiali. Quindi, in un quadro di incertezza, cambiare le politiche monetarie davvero potrebbe rappresentare un azzardo strategico.
Ma, secondo, e venendo a noi, Draghi ha sollevato, al netto dello scenario mondiale, due problemi strutturali europei, che essi si, se non venissero affrontati, rappresentano un freno alla crescita stabile in Europa. Il nodo di fondo è che il tasso di inflazione è più basso di quello della crescita. Ovvero che in tutta Europa è in atto da tempo una crisi della domanda che non riguarda solo l’eredità della disuguaglianza della crisi, ma due fattori precisi.
Il primo: la precarizzazione del mercato del lavoro. Draghi afferma, ed è assolutamente vero, che la media europea dei lavori intermittenti, occasionali ed a tempo limitato, ha superato la soglia del 30%. In questo scenario, il comportamento delle persone interessate è quello di privilegiare le politiche degli orari rispetto a quelle salariali. Chi teme di non essere confermato o che anche quelle poche ore di lavoro possano venir meno, certo non rivendica aumenti salariali, bensì una grande disponibilità alla flessibilità totale degli orari. La conseguenza econometrica è l’abbassamento del montante complessivo salariale e quindi una ripercussione negativa sulla domanda.
Secondo, i salari. La considerazione avanzata da Draghi sta in questi termini. Il Presidente rileva che l’unica parte fiscalmente incentivata dei salari, è quella del rapporto tra salari e produttività, a livello aziendale. Che ovviamente è giusta e che va estesa e consolidata, ma che purtroppo, nella media europea, riguarda solo il 12% dei lavoratori (in Italia intorno al 20). E che quindi esiste una sorta di rottura tra salari e fisco.
Superare questa frattura lo si potrebbe fare alla sola condizione che, in tutta Europa dove esistono i contratti nazionali collettivi di lavoro, ovvero in undici Paesi su 28, i Governi valutassero la fiscalizzazione degli aumenti salariali dei rinnovi contrattuali: quindi non solo l’intervento sul cuneo fiscale, ma oltre ad esso quello sui salari da contratto nazionale e quindi per una platea universale di lavoratori. Ovviamente tutto questo avrebbe un costo rilevante (da noi la fiscalizzazione universale del cuneo fiscale per 15 milioni di lavoratori privati, costa più di mezzo punto di Pil) a cui aggiungere quella dei salari da contratto nazionale.
Questo si, conclude il Presidente della Bce, rappresenterebbe un volano formidabile per il rilancio dei consumi e della crescita europea. Draghi, quindi si rivolge più ai Governi che alle parti sociali e ai Governi dice che le risorse dovrebbero essere reperite con un cambio delle politiche di imposizione fiscale, tassando di più i beni e le proprietà invece che le persone fisiche. L’Ecofin, su questo terreno, si muove lungo la stessa direzione ed è stata non celato il suo dissenso, ad esempio per l’ Italia, dell’esenzione generalizzata della tassazione sulla casa oltre alla pressione per introdurre l’obbligo alla fatturazione elettronica tra privati, la cui evasione dell’Iva, tocca i 40 miliardi. Ai voglia ad intervenire sul cuneo e sui salari contrattuali.
Di questo si tratta. Varrebbe la pena allora che proprio su questo ci cimentassimo.
Walter Cerfeda