La presentazione al Salone del libro di Torino del volume di Salvatore Corso “C’era una volta la Fiat”, edito da arabAFenice, con prefazione di Giorgio Benvenuto, ha dato l’occasione per ripercorrere i tratti salienti della storia dell’azienda torinese nel campo delle relazioni industriali. Occasione felice perché la Fiat si è trovata più volte al centro dello scontro di classe in momenti topici. I più famosi sono certamente la vertenza dei 35 giorni nel 1980 e la battaglia per Pomigliano d’Arco nel 2010. Due momenti cruciali, che l’azienda degli Agnelli affrontò con coraggio e determinazione, ma soprattutto con la precisa consapevolezza di non avere alternative.
Nel 1980 l’azienda fu costretta allo scontro dalla sua difficile situazione economica. La produttività era praticamente azzerata, la produzione rallentata, la gestione degli impianti fuori qualsiasi controllo. Il sindacato, a dieci anni dall’autunno caldo, era fortissimo e non accettava alcuna imposizione. C’era un alto esubero di personale, almeno 20mila persone, ed era indispensabile, per riuscire a sopravvivere, riprendere la guida degli stabilimenti.
Occorreva un cambio di passo e l’azienda decise di muoversi. Prima vennero alcuni episodi minori, quello dei cabinisti nel settembre del 1979 e, dopo poche settimane, quello dei 61 “violenti”, quasi prove di resistenza del campo avversario. Poi, nel settembre del 1980, arrivarono i licenziamenti, 16mila. Fu battaglia aperta, con i cancelli bloccati dai lavoratori per 35 lunghi giorni. Alla fine, vinse l’azienda, 24mila dipendenti in cassa integrazione a zero ore lasciarono per sempre il lavoro, soprattutto cambiarono gli equilibri del potere in fabbrica.
Anche nel 2010 la Fiat era in grandi difficoltà. Le vendite andavano male, la produzione era rallentata al minimo, la produttività bassissima, alcuni stabilimenti sull’orlo della chiusura. Serviva anche stavolta un cambio di passo. Sergio Marchionne, che aveva preso da poco la guida del gruppo, per cercare di riequilibrare la situazione propose al sindacato un patto, doloroso ma a suo avviso indispensabile. Fim e Uilm accettarono e firmarono un accordo, la Fiom lo respinse. Un braccio di ferro durissimo, che fu risolto da un referendum tra i lavoratori, vinto per un distacco di poche unità da chi quell’accordo aveva firmato. Per la Fiat fu un successo. Lo stabilimento di Pomigliano d’Arco, destinato altrimenti alla chiusura, fu risanato, divenne un centro produttivo di eccellenza, venivano da tutta Europa a studiare questo fenomeno.
Due momenti difficili, che la Fiat riuscì a superare sfidando il sindacato, o una parte del sindacato, sul suo terreno. Non aveva alternative, è vero, ma non si deve credere che dovette forzare la propria strategia, perché la Fiat ha sempre creduto nella validità della prova di forza, ha sempre ritenuto necessario sfidare i propri interlocutori. Non è un caso se la partecipazione è sempre stata lontana dalla sua visuale, considerata un incidente, non certo uno strumento per superare le difficoltà. E la Confindustria in tanti decenni ha sempre assunto questi atteggiamenti facendoli propri. Fino a quando le loro strade, di Confindustria e Fiat, non si sono platealmente divise.
I rapporti tra questi due grandi attori, l’azienda e la confederazione, non sono sempre stati idilliaci, tutt’altro. Ai tempi di Vittorio Valletta la Fiat era molto lontana da Confindustria, di cui non condivideva la strategia che aveva portato gli industriali a contrastare prima la nascita della Cee, poi l’avvento del centrosinistra, fino alla costituzione di Confintesa, un’unione con commercianti, artigiani e agrari per cercare di impedire lo slittamento a sinistra degli equilibri politici del paese.
La situazione cambiò alla fine degli anni 60, quando Gianni Agnelli assunse la presidenza dell’azienda fondata da suo nonno. Lui credeva fortemente nell’Europa, credeva nel dialogo con i sindacati, voleva Confindustria forte e coesa. E quando la confederazione si trovò in un momento di grande difficoltà, oggetto di trame politiche che ne volevano ridurre l’autonomia, non esitò a scendere in campo e anche ad assumere per due anni la presidenza di Confindustria per ricondurla in un porto sicuro. E riuscì nel suo intento regalando agli industriali un’associazione forte, protagonista della propria storia per svariati anni.
La strategia sindacale della confederazione non fu comunque mai lontana dalla tentazione della prova di forza. C’erano altre organizzazioni allora, quelle che associavano le aziende pubbliche, l’Intersind e l’Asap, che portavano avanti una politica sindacale differente, centrata sull’importanza del dialogo, del confronto, considerando la trattativa un modo per risolvere i problemi senza vinti né vincitori, alla ricerca di quelle intese win win in grado di far vincere un po’ tutti. Strategie differenti che poi convinsero anche Confindustria e portarono agli accordi del 1993, alla concertazione. Ma erano altri anni.
Massimo Mascini