Su Giulia Cecchettin e le altre 104 vittime della brutalità nel 2023 è stato già detto tutto, forse anche troppo, tanto che a un certo punto il fulcro del dibattito si è spostato da loro ad altrove – agli uomini che si sentono colpevoli, a quelli che noli me tangere, a Valditara e il minuto di silenzio, all’eyeliner della sorella Elena. Che brutti tempi, che distrazione.Nel vizio di quest’epoca ciò significa che ci stiamo avviando a dimenticare questo episodio fino a quando il contapersone non scatterà a quota 106 e allora torneremo a stracciarci le vesti e sentirci un po’ in colpa – per non aver colto i segnali, per non aver protetto le nostre figlie e non aver educato i nostri figli. La sensazione che se ne ricava è che tutto sia avvolto nella più totale confusione, che ogni volta è come se fosse la prima e nessuno di noi abbia per la centocinquesima volta realmente capito di cosa stiamo parlando. Quante donne ancora dovremo piangere prima di guardare in faccia la realtà e accettare con un peso sul cuore che il femminicidio non potrà mai essere debellato, al più solo controllato? Un terribile esercizio di realismo contro cui gli slogan della politica vanno a schiantarsi.
Un opuscolo, una panchina dipinta di rosso, una giornata commemorativa, un minuto di silenzio prima che il rumore di fondo torni a riempire l’aria: la partita della tutela dell’esistenza delle donne non si può giocare nella frazione di tempo che corre tra un omicidio e l’altro. Chiamare la causa “patriarcato” è solo un modo come tanti per rinfrescare un concetto (e sappiamo bene quanto questo secolo sia ossessionato dalle terminologie, al netto dell’analfabetismo di ritorno che ci morde i talloni): ma una rosa, anche se la chiamassimo con un altro nome, resta pur sempre una rosa.
Siamo perennemente esposti al pericolo perché siamo soli, isolati, individui senza rete che se cadono non trovano protezione, e allora tanto vale aggrapparsi a quello che c’è e tenerselo stretto. Una donna, una madre, una sorella. E questo accadrà sempre, come è sempre accaduto, inutile crogiolarsi nell’entusiasmo di un’idea che per quanto nobile resta astratta, come quando un sogno si fa più intenso a pochi istanti dal risveglio. No, non ci sentiamo protette dalla violenza maschile dacché le istituzioni ancora faticano a individuarla, a problematizzarla e renderla realmente un fatto politico. Si continua a guardare il dito trascurando la luna.
Va bene insistere sulle scuole, sulle famiglie, sul territorio; doverosissime un apparato di leggi e le istituzioni che fanno sentire la propria reale presenza al fianco di tutti e tutte. Ma l’azione deve essere culturale, continua, incisiva e trasversale: proteggere concretamente le donne dalla violenza, soprattutto proteggere concretamente gli uomini da sé stessi. Come la famosa goccia che scava la pietra, che poi può diventare marea. Dotarci di questo senso della realtà ci aiuterebbe a capire meglio quali risposte dare a quegli adolescenti che, intervistati al centro commerciale – “no, la mia ragazza non ce la mando a ballare da sola” e “sì, è giusto che il mio ragazzo mi controlli il cellulare” -, dimostrano il fallimento di tutto quanto fino ad ora. L’educazione sentimentale, benché legittimo intervento, è una spolverata di zucchero a velo su un dolce venuto male e scaricare ogni responsabilità sulla scuola sarebbe oltretutto dimostrazione di inefficacia. Senza dimenticare, tra l’altro, che la violenza non è un fatto limitato a una generazione.
Non è più prorogabile mettere il maschio davanti allo specchio e costringerlo a guardarsi, a sondarsi e accettarsi nelle proprie istintualità, senza ripararsi in piccinerie come “io sono diverso, io non lo farei”. Probabilmente è vero, ma porsi delle domande e mettersi in discussione è alla base di tutto. Ma anche lavorare sulle donne, sulla percezione di sé, sul fatto che nulla dobbiamo a un uomo violento; lavorare sulla consapevolezza e sugli strumenti, senza mettere loro tra le mani uno scudo difficile da maneggiare. Abbiamo da un lato pallidi interventi di arginamento del fenomeno, dall’altro la predisposizione della ferocia millantando pene esemplari per rispondere alla barbarie. La violenza, in ogni sua forma, dal femminicidio al bullismo, dallo stuprare una donna al dare fuoco a un barbone, è un fatto collettivo e non riguarda una sola vittima e un solo colpevole. Punirne uno per educarne cento è l’ischemia della storia.
Con il 2024 il conteggio si azzererà e potremo ricominciare da capo: anno nuovo vita nuova, dal primo gennaio ci mettiamo a fare le cose seriamente e tutto andrà per il verso giusto. Con Giulia Cecchettin è stato solo un po’ diverso perché siamo nel mese antiviolenza (il 24 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne), per cui quel bel volto continuerà ad ammonirci suo malgrado per ancora qualche giorno, ma non illudiamoci che sia per sempre.
Elettra Raffaela Melucci