È “sindrome italiana’’ la frase chiave che il Censis individua per definire lo stato del paese nell’anno 2024. Così si intitola anche il capitolo riassuntivo del Rapporto, arrivato alla 58esima edizione e presentato questa mattina. La sindrome italiana è quella per cui il paese galleggia, senza riuscire mai a fare quel salto di qualità che occorrerebbe.
È “la continuità nella medietà”, spiega il Censis, quella per cui nelle fasi di recessione non ci sfracelliamo mai in spaventosi abissi (sarà lo stellone italico che ci protegge) ma nemmeno, nei cicli positivi, siamo capaci di “scalate eroiche”. Insomma, aurea mediocritas, da ogni punto di vista: sempre a cavallo tra l’ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo. Siamo un paese dove nemmeno la “dialettica sociale” sfocia mai in nulla di concreto, dove nemmeno le sequele di “disincanto, frustrazione, senso di impotenza, risentimento, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole”, ovvero le (ahime’) principali caratteristiche dei nostri tempi, “sfociano mai in violente esplosioni di rabbia”. Forse sarà, come di usa dire, che in Italia non si fanno rivoluzioni perché ci conosciamo tutti; o forse sarà, come sostiene il Censis, perché “ci flettiamo come legni storti, e ci rialziamo dopo ogni inciampo senza ammutinamenti”, che alla fine è un po’ la stessa cosa.
Il rischio, però, è che se non si va avanti si finisca per arretrare: “la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata”, avvisa il Censis, i redditi perdono terreno e l’85% degli italiani è ormai convinto che sia difficilissimo, se non impossibile, salire la scala sociale. “Negli ultimi vent’anni il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%. E nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. La sindrome italiana nasconde non poche insidie”. Il rischio più grave è che si sgretoli il ceto medio, ovvero la colonna portante del sistema e paradossalmente oggi il più colpito.
Ma i conti che non tornano sono parecchi. Primo tra tutti, il mistero ancora irrisolto del lavoro che cresce mentre il Pil cala. “Nonostante i segnali non incoraggianti circa l’andamento del Pil, il numero degli occupati si è attestato a 23.878.000 nella media dei primi sei mesi dell’anno, con un incremento di un milione e mezzo di posti di lavoro rispetto all’anno nero della pandemia e un aumento del 4,6% rispetto al 2007”. Niente male, anzi, un record, ma appunto difficile da spiegare visto che il Pil sta facendo il percorso inverso: tanto più salgono gli occupati tanto più il prodotto interno lordo scende, fino a quel miserabile 0,5 nel quale l’Istat, ieri, ha individuato il tasso di crescita del 2024. E d’altra parte, come altro poteva andare, con 20 mesi continui di segno negativo alla produzione industriale? Conferma il Censis: “la produzione delle attività manifatturiere è entrata in una spirale negativa, il raffronto dei primi nove mesi del 2024 col 2023 rileva una caduta del 3,4”. Se riusciamo a stare a galla è grazie al turismo, che segna, lui si, dei veri record: 447 milioni di presenze in Italia nel 2023, quasi il 20% in più rispetto a dieci anni fa. L’aumento più evidente è attribuibile alla componente estera (+26,7%), che si colloca sui 234 milioni di presenze, ma il turismo domestico è comunque cresciuto del 10,9%. Nella sola Roma le presenze turistiche hanno superato i 37 milioni nel 2023; e ancora non è iniziato il Giubileo, che porterà un boom nel boom.
Viva il terziario, dunque? Non esattamente: perché se poi andiamo a vedere il dato sulla produttività, in vent’anni le attività terziarie hanno registrato una riduzione del valore aggiunto per occupato dell’1,2%, mentre nell’industria è aumentato del 10%. Dunque, il settore che maggiormente tira l’economia è anche quello a più basso valore aggiunto, e probabilmente più arretrato, mentre quello a più alto valore stenta e cala. Ma quanto può resistere un paese manifatturiero, nonché sesta potenza industriale, come l’Italia, con un andazzo simile? È un altro dei conti che non tornano.
Cosi come non tornano i conti dell’occupazione giovanile, che cresce, certo, ma resta sempre raso terra. Gli occupati nella fascia d’età 15-29 anni raggiungono la soglia dei 3 milioni, ovvero aumentano di circa 200 mila unità (on moltissimo) rispetto al 2019, in una proporzione di 1,8 milioni maschi e 1,2 milioni femmine. Nel 2024 il tasso di disoccupazione giovanile è sceso al 15,4%, ma resta pur sempre stratosfericamente alto. Il Censis osserva anche una contrazione del numero dei Neet under 30: 1.405.000 nel 2023, il 28,3% in meno rispetto al 2019; ma potrebbe semplicemente significare che anche i Neet invecchiano, ed escono dunque dalla loro specifica classifica. Per finire sotto quale casella? Non si sa. Resta che per il Censis il costo derivante dal loro mancato inserimento nel lavoro si quantificava nel 2023 in 15,7 miliardi di euro.
Intanto, le aziende continuano a non trovare gli addetti di cui necessitano. Nel 2023 la quota di “figure professionali di difficile reperimento” è arrivata al 45,1% del totale delle assunzioni previste: era pari ad appena il 20% appena sette anni fa. Tra gli under 29 sono difficilmente reperibili per “esiguità’ dei candidati” il 34 per cento delle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione e il 33% delle professioni tecniche. E ancora, non si trovano nel quasi 40% dei casi giovani che vogliano fare gli artigiani, gli agricoltori o gli operai specializzati. Il ridotto numero di candidati riguarda ormai il 70% delle richieste nel settore salute, manca il 40% dei cuochi, il 35% dei camerieri, il 47% degli idraulici, il 40% degli elettricisti.
Essendo cosi diffusa la “non reperibilità” di tante e differenti figure, sarebbe forse ora di smetterla di accusare gli stipendi bassi come motivazione, e guardare in faccia la realtà: questi lavoratori non si trovano perché non ci sono, nel senso che non sono proprio nati. Oppure, perché se ne sono presto scappati: dal 2013 al 2022 sono espatriati 352 mila ragazzi tra i 24 e i 34 anni, cioè un terzo del totale degli espatri. Ma non solo: di loro, 137 mila avevano una laurea. Un fenomeno, quello della fuga dei laureati, che si incrementa anno dopo anno: erano il 30% degli emigrati nel 2013, poi saliti a metà del totale nel 2022.
E dunque, per tornare alla “sindrome italiana”, non è un futuro esaltante quello che ci aspetta. Lo dice cosi il Censis: “È alto il rischio che le prospettive di crescita dell’Italia si vadano rapidamente annuvolando”. E questo alla faccia dei canti di gloria che il Governo Meloni alza al cielo ogni santo giorno, festeggiando l’Italia che ”torna a correre”: corre all’indietro, però. Il problema, spiega il Censis, è che siamo una società sempre più “chiusa”, e proprio per questo declinante, mentre solo “le società aperte”, capaci di “esplorare nuovi confini, di accogliere nuovi innesti, di correre nuovi pericoli” sono in grado di crescere. Insomma, dopo “anni alla finestra”, dice il Censis, gli italiani oggi dovrebbero “prendersi il rischio di andare oltre”. Ma considerando lo stato del paese -troppo vecchio, troppo ignorante, e sono sempre definizioni del Censis- e considerando soprattutto la sindrome da “salotto di Nonna Speranza” dell’attuale maggioranza politica, quella che gli italiani hanno votato evidentemente apprezzandone la tendenza a un ritorno al passato su una miriade di temi, c’è da dubitare che l’Italia sia pronta a fare quel salto ‘verso l’infinito e oltre’ di cui avremmo bisogno.
Nunzia Penelope