Come aveva rilevato, di recente, Tiziano Treu, intervenendo su un quotidiano, è verosimile che il ritrovato confronto Governo/sindacati, conclusosi con l’accordo in materia di pensioni, possa rappresentare l’occasione per una ripartenza della concertazione sociale.
Come è noto la concertazione ha avuto il suo massimo sviluppo negli anni ’80 e ’90, con i grandi Protocolli di intesa, siglati, a livello nazionale, tra sindacati interconfederali (guidati da personaggi del calibro di Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto) e associazioni datoriali, con la mediazione attiva del Governo (dal Protocollo Scotti del 1983, al Protocollo Ciampi del 1993, fino al Patto sociale del 22 dicembre 1998). Essa ha rappresentato un profilo di ricentralizzazione della contrattazione collettiva, assumendo un ruolo fondamentale nell’individuazione degli obiettivi di politica del lavoro: contrattazione collettiva, rappresentatività sindacale, regolamentazione del conflitto, difesa dell’occupazione, contenimento del costo del lavoro, politica dei redditi, misure anti-inflazione.
Con il Patto del 1998, si è avuta una forma di istituzionalizzazione della concertazione, attraverso l’assunzione, da parte del Governo, dell’impegno di una consultazione (obbligatoria, ma non vincolante) delle parti sociali sulle materie anzidette. Queste ultime potevano formulare linee generali di provvedimenti legislativi che, se valutati coerenti con i propri indirizzi, il Governo si impegnava a portare avanti come proprie iniziative.
Con la concertazione si è realizzato, in pratica, un modello di self-restraint delle prerogative di intervento dello Stato, con la devoluzione di esse alle parti sociali. Modello definito da Massimo D’Antona, appunto, neo-istituzionale, in quanto rivolto a consolidare nel circuito normativo dello Stato la presenza del sindacato quale soggetto istituzionale del sistema politico e la contrattazione collettiva come strumento normativo.
D’altro canto, la concertazione ha spiegato anche la sua efficacia in termini di pace sociale, soprattutto in fase di recessione economica. Il Protocollo del ’93, infatti, non solo si è adoperato a garantire un certo consenso verso l’accettazione di una delle leggi finanziarie più dure nella storia della Repubblica, ma con la sua mission di ridurre l’inflazione e riportare sotto controllo la spesa, ha contribuito in modo determinate al rispetto dei parametri di Maastricht.
Alla fine degli anni ‘90 la concertazione conosce il suo inesorabile declino: i Governi Berlusconi la ritengono, se non dannosa, quantomeno, inutile e una considerazione non molto dissimile proviene dagli esecutivi Letta e Renzi.
Nel Libro bianco del 2001, la concertazione è considerata una stampella per governi deboli e non abbastanza suffragati dal consenso elettorale; una forma di stabilità sociale che possa supplire alla scarsa stabilità politica. Questa cultura critica si diffonde fino a intravedere nel metodo concertativo un condizionamento dell’operato del Governo e una rappresentazione dell’indebolimento dei partiti in Parlamento, la cui azione verrebbe, in parte, sostituita dai sindacati, magari con un’attenuazione della loro attività conflittuale.
Al declino della concertazione contribuiscono anche le divisioni all’interno delle organizzazioni sindacali più rappresentative e alcuni interventi governativi miranti proprio a minare l’ordinamento intersindacale come legittimazione reciproca (si pensi all’accordo separato sulla contrattazione del 2011, o il ben noto art. 8 del D.L. 138/2011).
Invero, anche la crisi della concertazione può essere considerata come una raffigurazione della difficoltà di rivalutare la funzione dei corpi intermedi e dei meccanismi della rappresentanza. Una difficoltà a ricostruire, come ha rilevato Giuseppe De Rita, “cinghie di trasmissione” fra domande collettive e volontà politica. Nel momento in cui si è abiurato alla concertazione però si è anche finito per trascurare ogni possibile prospettiva di modernizzazione del dialogo sociale, presupposto indispensabile di un moderno sistema di relazioni industriali, la cui governabilità si basi sul consenso tra gruppi di interessi.
Rimane, invece, attuale l’opportunità di un coinvolgimento delle parti sociali in tutte le materie e i progetti di riforma di stretta natura sociale: dalla sicurezza, alla politica fiscale, agli ammortizzatori sociali, agli incentivi all’industria, etc.. Certamente, si porrà l’esigenza di selezionare dei soggetti deputati alla concertazione, attesa la difficoltà storica del sindacato di rappresentare l’universo del lavoro, e un punto di riferimento, a tal fine, potrà essere il Testo Unico sulla rappresentanza siglato, nel gennaio del 2014, da CGIL, CISL, UIL e Confindustria, nel quale (pur con le sue difficoltà attuative) si forniscono criteri per l’individuazione delle organizzazioni sindacali rappresentative.
È innegabile, poi, che qualsiasi prospettiva di ripresa della concertazione dipenda anche da un segnale di responsabilità e autorevolezza che le organizzazioni sindacali più rappresentative e strutturate nel tessuto sociale siano in grado di dare al potere politico. Un segnale non condizionato da battaglie di retroguardia, che raccolga la sfida della modernità e delle trasformazioni economiche e che confermi il ruolo del sindacato come soggetto del pluralismo democratico. Concertazione e/o il dialogo sociale, nel delicato momento storico del Paese, possono contribuire al superamento della recessione economica, a condizione che nessuna delle parti sociali anteponga dogmatismi o intransigenze ideologiche.
Si potrà allora riflettere sull’opportunità di istituzionalizzare la concertazione, o mantenerla semplicemente come prassi sindacale. A tal proposito, in uno scritto del 2000, Edoardo Ghera proponeva un uso “disincantato” della concertazione, ritenendo questa un utile sostegno alle politiche economiche del Governo, senza che, comunque, declini verso forme di istituzionalizzazione, ribadendo, in tal modo, la reciproca autonomia tra Stato e gruppi sociali. E in effetti, è più opportuno ed efficace che la concertazione rimanga una prassi sindacale, attraverso la quale il sindacato rappresentativo riesca coinvolgere il potere pubblico. Una prassi che possa, eventualmente, essere rinforzata dall’intervento legislativo, piuttosto che un’istituzione debole.